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lunedì 1 aprile 2013

Il Barbaro Sognante di Macchia da Borea!

Il paesaggio si restringe agli occhi tra pinnacoli rocciosi che fanno da anticima al Girella quasi dolomitico.
Gli speroni rocciosi si susseguono come quinte teatrali.

In lontananza, sotto le punte acuminate della montagna e la vegetazione che assedia le povere rovine del castello del re Manfredi, le pietre monche sembrano guardiani orgogliosi della loro storia.

In cielo ci sono buona parte dei colori del mondo sparsi nella dinamicità della nuvolaglia che transita in alto.
Sono riflessi di magia che lasciano nel cuore impronte indelebili.
La geografia dell’abbandono ha un suo fascino.

Si nutre di pietre smozzicate, di erba cipollina spontanea, di piccoli graffiti maleducati lasciati dallo strusciare degli zainetti.

Ogni cosa è immobile, pare lasciata lì per caso.
Anche la piccola Barbie senza testa che spunta in mezzo ai rovi.

Sulle scale di un balconcino mezzo crollato, c’è anche un quaderno ingiallito dal tempo, con sopra raffigurato un drago sputa fuoco.

Sono piccoli reperti di una esistenza normale che non c’è più.

E’ facile farsi prendere da una sorta di sindrome di Stendhal per la suggestione di luoghi feriti, un tempo ricchi di gente e di commerci.
È bello immaginarsi archeologo in movimento all’interno di un paese perduto, tutto preso ad usare al meglio i cinque sensi.

Non manca la mandria di pecore e montoni a completare il tratto bucolico di un paesaggio tenero che aiuta a trovare la giusta dimensione della vita e delle cose.

Il pastore non è il solito macedone.

È un vecchio allevatore del luogo.
Mi chiede come mai visito le rovine del paese.
Crede che stia cercando qualcosa.
Ha la vocina arrotata da bimbetto di quasi ottant’ anni. Blatera con dialetto stretto parole per gran parte indecifrabili.

Mi spaventa l’idea che, accanto a se, accarezza il pelo bianco e folto di un cane pastore dallo sguardo truce.
E se decide di lanciarmelo contro?
Invece, dalla tasca del pantalone liso, caccia il ritaglio ingiallito del giornale di cui pare fiero come per un vecchio diario.

Mostra l’articolo tagliuzzato dove campeggia la sua foto datata 5 febbraio del 1959.
Allora lo avevano intervistato i giornali locali dell’epoca e lo definivano già l’epigono dei pastori che non vogliono scomparire.

Capisco che lui vedendomi con macchina fotografica al seguito, spera in cinque minuti di notorietà su qualche rivista.

La voglia di mostrarsi non ha età.
Si nutre di superbia, di orgoglio, di apparenza.
È l’alfa e l’omega delle esistenze.

Mi chiedo se davvero questo anziano montanaro abbia il pallino del green washing, se cioè dedichi interessi e azioni a tematiche ambientali per farsi perdonare magari uno stile di vita non sempre a prova di sostenibilità.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano recitiamo ogni giorno nelle nostre preghiere.
Ce lo aspettiamo sicuramente fragrante con una bella crosta e una mollica compatta e spugnosa.
Non di certo sogno questa ciabatta quasi ammuffita, sulla quale l’uomo mi piazza una fetta gigante di pecorino appena tolto dall’olio.

Capisco che il fornaio dista almeno dieci chilometri, ma il pane appare immangiabile.

Il vino poi che accompagna il cibo, sa di aceto misto a olio di ricino.
È quasi imbevibile ma l’uomo si è piazzato davanti alla mia figura e mi tocca trangugiarlo per non offenderlo.

Cerco di evitare smorfie per il sapore quasi disgustoso, riempiendo la bocca di formaggio, quello sì buono da morire.

Il vecchio pastore ha voluto mi fermassi a casa sua.
Dietro l'abitazione c'è un grande slargo dove i cavalli sono in libertà.
Una piccola abitazione, carina, bianca di calce, adatta forse più a un paesaggio di mare, con il suo orticello dalla terra indurita dal vento freddo che spira per gran parte dell’anno.

A lato della strada c’è una Mercedes, vecchia almeno quanto il suo proprietario.
È uno di quegli esemplari rari a vedersi, con la calandra del radiatore ampia e imponente che sembra una facciata di condominio.

È sulla strada del tuo ritorno la mia casa, mi ha detto, ho vecchie foto che ti piaceranno, scattate da mio padre molti anni fa.

Strano, penso, che sin da quei tempi si pensasse a costruire immagini, intenti come si era alla dura vita dei pascoli.

Poi capisco che tutti noi immaginiamo i pastori, i montanari, come gente senza vita, senza famiglia, ricordi, senza una minima vita sociale.
Ci siamo fermati nella considerazione a quando erano allontanati e reietti, ritenuti impuri e lasciati vegetare tra animali, squallore e sporcizia.
Evidentemente non è così e non lo era più già negli anni’60, quelli del boom economico e del grande sogno italiano.

Dalle pagine dell’album impolverato che l’uomo fa scorrere, passano immagini fantastiche, in bianco e nero d’epoca, alcune seppiate.

Una raffigura la famiglia rivestita, in gran spolvero che si reca a Valle Castellana per la grande fiera del bestiame, l’altra narra la carovana di uomini e animali che parte per la transumanza in terra di Puglia.
Ancora uno scatto che celebra la mamma con, sopra la testa, la conca dell’acqua e, sul braccio sinistro, il bimbo quasi appeso al suo arto.

Un’altra immagine vede i patriarchi della famiglia in stivaloni e con prole ai piedi, fuori dalla stalla mentre la testa di un bue spunta dietro la grande porta di legno e il più piccolo dei figli che piange fino a strapparsi la bocca.
Mamma mia, non ho scoperto un vecchio pastore.
Quest’uomo è un barbaro sognante.

Per un momento il vecchio sembra commuoversi, sicuramente si è intenerito, bucando la scorza burbera e possente della quale si fa scudo per difendersi da immaginarie intrusioni dall’esterno.
Poi, come animale a sangue freddo, riprende il suo stato naturale di rude corteccia.
Rifiuta con un perentorio no la mia proposta di pubblicare le foto.
Ha paura che non gliele restituisco.
Come sono lontane le città caotiche di Teramo e Roseto, relitti post industriali con i loro paesaggi di gru coi bracci penzoloni su di palazzi incorniciati dal cielo.

In questa gola di poche anime, tagliata in due da una strada erta, tra coni verdi che paiono mettere “radici nell’aria” tutto è drammaticamente bello ma anche difficile.
Anche nelle giornate più limpide resta appesa in cielo un’idea di temporale.

Quando lo saluto ho in corpo un paio di bicchieri del suo vino purgante e due fette del cacio che tornano su dallo stomaco, urlando fantastici “bee, bee”.

Nel frattempo si è alzato il vento forte.
Gli alberi si piegano ad ogni folata e quasi toccano terra con la punta.
Per fortuna che non devo piazzar tenda.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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domenica 31 marzo 2013

I segreti di Piano Maggiore

Chi ama le storie raccontate dalle pietre e dal vento, apprezza questo luogo di assoluta bellezza.

Gli uomini duri e forti che popolavano l’Abruzzo minore, erano eroi aggrappati alla montagna, che conquistavano ogni giorno la loro esistenza senza garanzie e sicurezze.

Il paese abbandonato di Piano Maggiore è una chicca del paesaggio teramano.

Il monte Foltrone detto di Campli e il Girella di Civitella del Tronto qui regalano immagini dai tanti colori: le cromie dei fiori abbarbicati alle rocce, il verde dei pascoli, il grigio dei tetti consumati dal tempo, il cielo azzurro.

La magia esiste su queste montagne ritenute a torto, minori. La percepisci dall’alto di un picco roccioso, con tutti i sensi, tra crinali di pietra e macchie bianche di pecore al pascolo.
E’ la quotidianità che incontra lo straordinario.

Le montagne gemelle invadono ogni cellula del corpo e della mente, come una malattia inesorabile che non dà certezza di cura.

Lo scheletro di questa ghost town, uno dei tanti borghi abbandonati del comprensorio, fa tenerezza.

L’insieme di case è simile a un alveare corroso dal tempo, dal vento e dalla pioggia.
Il vento, da queste parti, soffia con brutalità selvaggia.

A un pugno di tornanti da Macchia da Sole, oltre mille metri di altitudine, il borgo di Piano Maggiore ha vissuto storie terribili, anche leggende, come quando, nel 1570, un gruppo di nove donne ritenute responsabili di crudeli sortilegi, fu processato.
Si videro costrette a confessare reati mai commessi e condannate al rogo.
Oggi, minuscole siepi di biancospino avvolgono le povere case.
Dall’altra parte della valle, fanno mostra di sé le geometrie dei pochi campi coltivati.

La vecchia chiesina di San Pietro custodisce un ossario, dove la leggenda vuole fossero sepolti i resti di temibili briganti quali, Antonio di Forca e Berardino di Celidonia con parte dei loro amici manigoldi.

Il brigantaggio da queste parti non è mancato dal Medioevo in poi, con personaggi come Marco Sciarra, Ursino di Sabatuccio, Alfonso Piccolomini.

Su quella che un tempo era carrareccia attraversata da mercanti della lana e del sale, pastori e nomadi, è facile imbattersi di domenica, in una torma indiavolata di ciclisti in tecnologiche mountain bike, con mutande elasticizzate, maglie sponsorizzate e caschi, tutti presi a scalare il rampichino delle marce in salita.

Non lontano, un minuscolo specchio d’acqua, il laghetto di Sbraccia, regala momenti di tranquillità tra fusti flaccidi di piccoli arbusti fiorati, immersi per metà nell’acqua.

Il Colle San Sisto, secoli fa custodiva un grande monastero con oltre cinquanta frati.

Oggi non è altro che un ciuffo di verde.
 Un tempo i corpi delle vecchiette erano chini a raccogliere cicorie e spinaci selvatici, armate di coltelli.

Oggi non cresce altro che zizzania.
Pochi passi per Leofara e il castello di Valleinquina, un tempo ricettacolo di briganti e lupi tanto che la tradizione ricorda nel 1700 un papa che, per liberarsi di scomodi personaggi, arse una consistente parte della foresta intorno.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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lunedì 25 marzo 2013

Nel cuore del mito: Le storie fantastiche del Manfrino!

I raggi del sole che penetrano nelle ombre scure dei tronchi di alberi secolari, riportano alla mente le fiabe dei nonni.

Siamo sopra la gola del Salinello, tra la montagna di Campli e quella dei Fiori.
L’arrotondata cima di monte Girella sembra di una monumentale perfezione, con un piccolo raggio di luce vivida di sole che esalta all’altro lato il monte Foltrone sullo sfondo.

Il sole sembra aver abbandonato questi monti e la sottile nebbia che li avvolge dona un senso di misterioso all’insieme.
Le grotte sotto il mitico Castel Manfrino, punteggiano le strette pareti e raccontano storie incredibili di anacoreti che per lunghi anni hanno vissuto in privazione e preghiera travalicando la sopportazione umana e dando un senso compiuto alla Torah e alla sua essenza inafferrabile.

Le mute pietre della rocca riflettono gli ultimi strali di fuoco rievocando racconti di streghe e diavoli, negromanti e spiriti perversi, animali fantastici e cavalieri erranti, folletti e licantropi.

Tante le leggende fiorite su questi nobili ruderi come quella che racconta dell’erezione dei muri di cinta di quest’antico castello, oggi diroccato e a picco sulle gole, da parte di esseri umani di proporzioni gigantesche, i mitici Paladini di Francia.

Il re Manfredi volle il luogo inespugnabile, preoccupato da una possibile invasione, dalle attuali Marche, dei temibili Angioini.
Era, questo passo tra i monti, di notevole importanza strategica per chi, proveniente da Roma e Antrodoco, attraverso l’antica stazione romana Castrum Metella intendesse giungere al mare adriatico.
Il sottosuolo della collina, dove sorgono i resti del forte, ha restituito spesso monete, statuette, monconi di capitelli e pezzi di lapide.

Qui sono passati tribù italiche, Romani, Longobardi e via, via tutti i popoli che sono entrati in Abruzzo, permettendo il commercio del sale e di altri beni preziosi e consentendo l’arrivo di tanti abati trasformatisi poi in eremiti.
Tutto ciò stride con il senso di solitudine in cui versa oggi la zona.

Tanti hanno alimentato leggende stupefacenti raccontando di essersi imbattuti in demoni orrendi dalla forza inaudita o nauseanti “mazzmarill” roteanti assurdamente fianchi e manine.

In un vecchio libro sulle leggende abruzzesi, si riporta l’antica credenza che, nelle notti di luna piena, spesso tra le pietre del castello diroccato, si svolgano furiose battaglie tra cavalieri fantasma; spettri di guardia mozzerebbero le mani agli umani che cercherebbero di assistervi.

Le grotte sotto i resti del castello sembra abbiano, nel corso dei secoli, ospitato anche esorcisti e guaritori.
Si trattava di asceti che riuscivano a guarire, secondo le credenze popolari, dalle presenze demoniache, con strani rituali purificatori.
Questa tesi sarebbe avvalorata dalla scoperta di piccole nicchie con tracce di antichi affreschi, dove erano consumati tali riti.

In questa valle San Francesco, che la tradizione vuole sia passato nel 1215, dimorando alcuni giorni in un anfratto della parete nord del Foltrone, mentre tornava al suo giaciglio dopo aver predicato nel villaggio vicino, fu aggredito da una moltitudine di pidocchi inviati dal malvagio che vigilava dall’altra parte della gola.

Il poverello d’Assisi puntò il suo vincastro facendo partire una folgore che, colpendo in fronte Satana, lo fece precipitare lungo l’alveo del fiume, uccidendolo sul colpo.
A riprova di ciò ci sarebbe una pietra, dove il santo si poggiò in cui sono evidenti le impronte delle mani e dei piedi e un grande foro nel punto in cui il maligno precipitò.

Nel fondo della gola, dove il fiume si presenta più tumultuoso, narrano ci sia un enorme macigno che bloccherebbe una cavità naturale, al cui interno si nasconderebbe un tesoro in monete d’oro, rame e argento.

Il bottino, la cui proprietà risalirebbe al Re Manfredi, sovrano del castello di Macchia, sarebbe custodito da una splendida fata vestita di bianco che, quasi una sorta di Penelope, tesse e disfa la lana in continuazione.

Edordo Micati, nel suo libro sugli eremi della montagna teramana, parla di un monaco che se ne sta nel fondo della grotta dritto e in silenzio in attesa del comando della bianca signora.


Diversi cava tesori, nel corso dei secoli, hanno provato a impossessarsi dell’ambito mucchio di monete, perdendo sciaguratamente la vita.

Si è diffusa così la credenza che esseri mostruosi si annidino nella valle, impedendo con tutti i mezzi, il trafugamento della ricchezza, servendosi di uragani e tempeste, fiamme e bagliori.

Il sovrano, grazie a un ignobile patto con il diavolo, fece uccidere il suo fidato consigliere di corte, sotterrando il corpo, privo di vita, insieme al tesoro per far sì che l’anima vagasse, inquieta, tenendo lontano i curiosi con gemiti, urla e imprecazioni.

La leggenda racconta che chi si avventurava nell’orrido, dovesse inizialmente portare via solo le monete in rame, per poi ripresentarsi tre anni dopo per quelle in argento e successivi tre anni per depredare in tranquillità, le ambite monete d’oro.

La cupidigia degli avventurieri per il metallo più nobile faceva sì che la porta d’ingresso si richiudesse dietro di loro facendoli perire dentro l’anfratto. 

Scendendo nel canyon dove la luce riflessa gioca sui toni del bianco e del grigio, soffocando i colori brillanti della valle, avvertirete quel sottile senso di disagio che comunemente si chiama paura!

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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