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giovedì 30 maggio 2013

Cesacastina: di pietra, acqua e legno

Un grazie di cuore a Concetta Zilli per la sua preziosa collaborazione nel farci conoscere un paese unico!

Tre parole caratterizzano il paese di Cesacastina, a 1150 metri, nei monti della Laga teramani: pietra acqua e legno.

La pietra e’ stata per secoli la regina.
Ha creato case, strade, muri, è stata utilizzata per altari di chiese, fontane, tabernacoli.

Gli elementi lapidei sono l’anima di questi luoghi.

Il legno dei boschi ha fatto innalzare tetti con travi a vista, ha dato modo di realizzare pavimenti o scuri delle finestre.
È stato sostegno nei lunghi e freddi inverni.

L’acqua è la grande ricchezza di questi luoghi, abbondante e di eccezionale qualità; ha dato forma a ruscelli e fiumiciattoli, cascate e laghetti.

Cesacastina ha una scenografia di grande impatto.
Il paese ha la forma di una croce e, ad ogni estremità corrisponde una borgata: colle, villa mastresco e combrello.
Ognuna di queste zone è a sua volta un piccolo paese con le abitazioni in pietra locale di arenaria, squadrata, solidissima, resistente ai terremoti.

La parte più antica e’ il combrello, contrada “scomoda”, posta in pendenza e per questo la prima ad essere abbandonata dai suoi abitanti.
Secoli fa qui era presente un monastero.
Ecco il perché delle epigrafi in latino, dei moniti, le lodi e i segni d’ispirazione gesuita come le lettere IHS in cui l’H e’ sormontata dalla croce.

Ancora oggi, su un architrave, in piazzetta, si legge un monito inquietante del settecento: DESCENDANDT IN INFERNUM VIVENTES, NE DESCENDANT MORIENTES, se si pensasse più all’inferno da vivi, non ci si andrebbe da morti.
Nel chiuso di una di queste case si trova uno splendido camino fatto in pietra pregiata nel 1780.

Il manufatto è imponente, inciso con fioroni ritorti ed uccelli alati, angeli, grifi con code di leone.

Nella contrada Mastresco c’è una chiesina che può contenere circa venti persone, dedicata all’Immacolata Concezione, dove la messa viene celebrata solo l’8 dicembre.
 Negli anni trenta, nella borgata si contavano più di cento persone tutte con lo stesso cognome: Romani, Marrocco, Tomò.
I capi di bestiame erano oltre cinquemila di cui la metà di proprietà di Samuele Marrocco.

Un discendente della famiglia continua la tradizione pastorale deliziando con la sua ricotta ed il formaggio.
Era qui che lavoravano i più bravi “archire”, intarsiatori di legno, abili nel realizzare le famose arche e madie dove si preparava il pane e si conservavano le scorte di cibo in assenza del frigo.

Le più belle erano incise con una specie di compasso, con motivi di fiori stilizzati.
Di pregio vi era anche il mulino gestito da due donne, cosa insolita per i luoghi e i tempi.

La Villa e’ la borgata centrale.

Vi si erge la bellissima chiesa dedicata ai SS Pietro e Paolo, con la facciata seicentesca e il campanile a vela a tre campane.
Questi bronzi, nei giorni di festa grande, vengono suonati ancora a mano, tirando le funi con una tecnica che pochi conoscono.

Se non vengono agitate le corde con l’esatto sincronismo, infatti, non si ottiene la melodia esatta dei rintocchi.

Due devono essere i suonatori, uno che agita una campana, mentre l’altro che deve trovare il giusto ritmo nelle braccia per tirare le funi delle altre due.
Un terzo uomo e’sempre pronto a dare il cambio al primo cenno di stanchezza.

Sulla sommità della chiesa vi erano due leoni del XIV secolo. Dopo il recente terremoto, per motivi di sicurezza, le fiere di pietra sono state spostate in attesa di restauro e momentaneamente si trovano delle copie realizzate da scalpellini locali.

L’interno si presenta con una pianta a croce e altari barocchi di gran pregio ricoperti con lamine in oro e colonne tortili.
 Quello maggiore, a tre nicchie, contiene le statue lignee dei santi Pietro e Paolo e un Gesù del Sacro Cuore.
In alto troneggia un busto del Padre Eterno e la colomba dello Spirito Santo.

Nella cappella di destra, si ammira un dipinto locale delle anime purganti, mentre in quella di sinistra, che conserva il pavimento in lastroni di arenaria antichissimi, c’è un quadro con la Madonna del Rosario, opera di bottega napoletana, fine XVI secolo.

È un piccolo tesoro conservato nella solitudine dei nostri monti.
Oggi ad accogliere i fedeli ci sono delle panche in legno, ma un tempo ogni famiglia aveva le proprie sedie fatte costruire per l’occasione e tutti occupavano un posto definito.

Quando i giovani convolavano a nozze, il suocero commissionava una nuova sedia, intarsiata, per la sposa, che si accomodava negli spazi della nuova famiglia.

Tradizionalmente la cappella di sinistra ospitava solo uomini mentre le donne si riversavano tutte nella navata di centro.
L'ultimo restauro che ha dotato la chiesa di un bel pavimento in cotto, ha cancellato un segno che ha terrorizzato generazioni di bimbi: la botola coperta da una enorme pietra quadrata.
C’era il carnaio dove prima della legge napoleonica, venivano calati i morti con le funi.

In questo luogo sacro si conserva il pregiato calice in argento dorato realizzato dall’orafo Bartolomeo di Sor Paolo di Teramo nel 1426, molto simile a un altro presente nel famoso British Museum di Londra.
I sei smalti sul piede e sul nodo raffigurano il Cristo tra i santi.
Davanti allo spiazzo della chiesa si ergeva l’olmo secolare, alto trenta metri, piantato nel seicento e divenuto famoso in tutt’Italia, per essere il terzo più grande della penisola.

Per abbracciarlo erano necessarie le braccia di undici uomini.
L’olmo è stato il simbolo della comunità.

Quando in paese si costruì una strada e arrivò l’energia elettrica, l’albero per il taglio delle radici e per le scariche elettriche dei fulmini attirati dalla vicina centralina, perì, lasciando il paese sgomento.

L’ultima borgata, il Colle, è in alto.
Nelle sue vicinanze ci sono le sorgenti migliori della Laga: l’acqua “d’ lu pirdir e d’ li finticell “ oltre a quella “d’ la lagnett” che probabilmente verrà imbottigliata (per caratteristiche organolettiche, è tra le prime cinque acque in Italia).

Non lontano c’è la “cunicell d’ lu coll”, il tabernacolo sormontato da uno splendido viso di angelo alato in pietra e una croce in ferro battuto.
All’interno è conservato un crocifisso ligneo egregiamente restaurato da pochi mesi.




Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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mercoledì 29 maggio 2013

Le storie di Sant'Angelo di Abbamano

S. Angelo in Abbamano è una località agreste di Sant’Omero, un tempo ubicata su di una via molto usata dai romani per condurre gli eserciti nel Pretuzio e nel Piceno ascolano.

Nei tempi antichi, esisteva una sorgente di acque sulfuree, oggi prosciugata. Pare che fosse utilizzata per curare le artrosi.

Il luogo era denominato Sant’Angelum ad Puteum probabilmente proprio per l’odore nauseabondo dell’acqua termale.
 Oggi su quella che era una massiccia costruzione romana di bagno pubblico o forse di enorme cisterna, sorge l’incantevole chiesina dedicata al culto di San Michele Arcangelo, con le sue semplici strutture romaniche senza fondamenta.

Questa ipotesi costruttiva, dettata da più di uno storico, pare suffragata dalla presenza di un mosaico, sul lato destro del tempio, coperto da uno strato di ghiaia minuta, fatto di piccole tessere chiare, che doveva costituire il pavimento dell’edificio superiore del bagno termale.
Proprio su questo mosaico è fondata la base del muro della chiesetta, che in alto è di mattoni rinforzati.

Sull’ingresso della chiesa inoltre, volto a occidente, il gradino della soglia non è altro che un frammento di epigrafe il quale reca incise delle lettere a grandi caratteri imperiali.

Il luogo oggi è solitario ma un tempo doveva essere molto frequentato.
Si deduce dai ritrovamenti di scheletri di animali e di ossa umane.

In un paese come Sant’Omero, martoriato dai continui trafugamenti dei tombaroli, non si capisce bene come non sia stata rubata anche una splendida Madonnina lignea gotica, che fino a qualche anno fa impreziosiva il piccolo tempio contadino.
L’opera, che ora è custodita nel Museo Nazionale d’Abruzzo dell’Aquila, rappresenta la Madonna seduta su uno scanno in posizione frontale mentre sorregge con il braccio sinistro il Bambino in piedi.

Il piccolo Gesù, vestito con una tunica fermata ai fianchi da un drappo, tiene una minuscola sfera nella mano sinistra.
La Vergine velata indossa una tunica coperta da un manto stellato.
L’opera è attribuita ad un maestro ignoto di provenienza umbra.
Sono numerose le leggende che popolano questo luogo dal quale si domina le valli del Vibrata e Salinello.
Storie fantastiche di chiocce con uova d’oro, di tesori nascosti sotto terra e di tumuli bi millenari di grandi personaggi dai corredi funerari ricchissimi.
Il fascino del luogo però risiede nella storia secolare che custodisce.



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martedì 28 maggio 2013

"Và e ripara la mia casa": la chiesa di Fioli depredata!

Nella sua abitazione a Teramo, c’ la litografia che non ti aspetti!
Riproduce San Michele che sconfigge il drago.

Lui è a cavallo mentre, spada alla mano, castiga l’animale e guida il trionfo del Bene.

“L’ho comprata al mercato delle pulci a Roma” – dice con aria soddisfatta.

E’ in fondo al letto.
“I santi –mi dice – sono come un ponte fra noi e il cielo, essere pellegrini sulla terra è come camminare su questo ponte”.
Certo Tonino Di Giammartino sa cosa significava pregare i santi vivendo a Fioli nel profondo della Laga, con il papà e la mamma di professione pastori, nella sua vita non certo priva di durezza.

Sono le favole, le storie, i miti della cultura contadina e pastorale.
I suoni delle tante campane dondolanti sotto la barba delle pecore, la nonna che con il proprio magico tamburello scacciava – lui bambino - i mostri creati dalla solitudine e dalle paure.

Oggi Tonino è uno stimato dipendente pubblico a Teramo ma di certo non rinnega le sue origini.
Mi porta nel paesello “perché è un emergenza, abbiamo bisogno di aiuto!”.

Fioli è immerso tra selve piene di fonti (ha il toponimo derivante da “fili d’acqua”).

La sua chiesa è intitolata a San Martino, santo protettore delle Armi Italiane.
Giaceva, nonostante alcuni restauri, in un irreversibile degrado.
Oggi è stata depredata da manigoldi prezzolati pagati da falsi amanti dell’arte per rubare opere immortali dai templi cristiani sperduti nella Laga.

La chiesa risale alla seconda metà del 400, restaurata intorno al 1660.
E’ piccola ma prima dei furti, era ricca.

Conteneva una pietra antichissima che custodiva gli oli sacri e diverse statue lignee di gran pregio, oltre a una preziosa acquasantiera in legna e pietra.

Esperti studiosi volevano trasportare queste antichità a Roma per restauri ma i pochi abitanti, capendo che non l’avrebbero più riviste, si opposero fortemente qualche anno fa.

Una statua della Madonna delle Nevi in restauro, manca da diversi anni, così dicasi il piattino con gli occhi di Santa Lucia che, portato a Chieti, non ha visto più la via di casa.

L’altare ligneo barocco era già in pericolo perché il muro che lo sorreggeva si sta deteriorando per le infiltrazioni dovute alle piogge.
Oggi una parte di esso è stata trafugata.
Hanno portato via alcune pietre secolari con cui venne realizzata la prima versione, secoli fa.

I muri e lo stesso soffitto soffrono ancora per l’acqua piovana che entra copiosa a ogni pioggia inviata dal cielo.

La chiesa è stata costruita probabilmente sopra un antico ossario.
Infatti, al centro dell’unica minuscola navata, si vedono ancora buche di sepoltura forse utilizzate durante la tremenda carestia del 1817.

In quegli anni difficili i morti venivano sepolti in chiesa, nella famosa fossa comune detta “carnaro”, nella quale i corpi venivano calati.

Il tempio di San Martino allora ebbe le fosse così piene che, racconta il dotto scrittore Valentino Di Tommaso, originario del paese e oggi autore di numerosi libri sulla vita fiolese, “prima di calare altri morti bisognava spingere con pertiche verso il basso la catasta di quelli che vi erano stati collocati, vittime del drammatico anno della fame”.

“Le fondamenta abbisognano di consolidamento, il tetto ha dei buchi.
Dell’intonaco non parlo, basta guardare!” – mi dice sconsolato il signor Aladino.

Mostra poi con orgoglio antichissimi reliquari e ciò che resta delle pietre del vecchio altare che non sono riusciti a rubare.

Le donne, che già si apprestavano alle preghiere, mi conducono davanti alla statua lignea della Madonna del Rosario.
La Vergine ha il viso scrostato per via delle infiltrazioni e della muffa.

L’altra statua raffigurante la Madonna del mese di Maggio sembra integra.
Una signora dice che nella vicina Pezzelle, la chiesa di San Pietro è stata restaurata e la loro è invece abbandonata al suo destino.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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lunedì 27 maggio 2013

La grotta abitata dal vento

Basta percorrere pochi tornanti sopra i bei paesini intorno a Comunanza in provincia di Ascoli Piceno, per aprire la vista a un panorama meraviglioso.

Ho lasciato il lago di Gerosa, dove canoisti davano fondo alle loro energie di buona ora.
La jeep del mio amico ascolano, over ’60 che chiamo Amedeo Nazzari per via del suo baffo nero sui capelli brizzolati, arranca sulla carrareccia sbrecciata che porta al rifugio del monte Sibilla.

La strada ha sfregiato vergognosamente la montagna in un saliscendi da vertigine, ma ha dato la possibilità di arrivare in alto anche a chi non può permettersi una buona deambulazione.

Il panorama è inenarrabile.
Qualche nube grassa è in movimento in lontananza, ma si scopre tutto: l’intera catena dei Sibillini, le foreste della Laga, i massicci del Gran Sasso, le cime della dea Majella, i reatini e tre quarti di provincia ascolana con il mare Adriatico.
Ho deciso di tornare a visitare la grotta della maga, anche chiamata “antro delle fate”, posta a 2150 metri di altezza.
Mi assoggetto di buon grado alle due ore di camminata.

Chi conosce il posto sa che stiamo parlando di un buco, per giunta quasi ricoperto da pietre muschiate e rocce sfaldate.
Per me è una sorta di “casa degli spiriti” come la chiamerebbe il giornalista Paolo Rumiz.
 Anch’io, come tutti, sono rapito dal mito che ha sempre affascinato l’uomo fin dall’epoca classica.

Credo che abbiamo bisogno di fantasticare, di sognare, di immergerci nel mistero.

Hanno tentato negli anni, di allargare il passaggio della spelonca, utilizzando esplosivi con il risultato di rendere ancora più difficoltoso, anche per speleologi esperti, l’ingresso nella sala interna di circa quattro metri di altezza dove la leggenda dice si trovino ragazze di bellezza inaudita.

Qui c’era la dimora della Sibilla appenninica, punto d’accesso al fantastico regno ipogeo della regina condannata in eterno a vivere nelle profondità della terra per essersi ribellata a Dio.

In realtà lei era la fata buona mentre Alcina era la maledetta.

Sibilla, pensate, inviava anche le sue ancelle ad aiutare le giovani delle popolazioni sotto la montagna, nell’apprendere l’arte del filare e del tessere.

Per un terribile sbaglio la maga profetessa fu scambiata per quella cattiva e dovette pagare il fio di colpe non commesse.

L’incredibile figura ha ispirato il disegnatore delle celebri fatine Winx.
Di queste storie misteriose s’imbeve tutto il complesso.

Dall’anticima, infatti, si scopre il lembo finale del minuscolo lago di Pilato, incassato tra il Vettore e le sue Cima Redentore e Pizzo del Diavolo, luogo infernale dove Ponzio Pilato, dopo aver crocefisso Gesù, si sarebbe inabissato con la biga trascinata da bufali imbizzarriti, cadendo nelle grinfie di demoni assatanati.

Luogo di maghi e negromanti, il piccolo specchio lacustre diventerebbe rosso in inverno, scientificamente per la presenza di un microrganismo unico al mondo che assume questa colorazione, per la tradizione in ricordo del sangue versato dal personaggio biblico.

La notizia è che l’Ente Parco, con i comuni ascolani, sta mettendo a punto un progetto di valorizzazione della zona e delle sue enormi emergenze culturali, antropologiche, geologiche, ambientali e di tradizioni.

Qui non ci crede nessuno, tantomeno il mio accompagnatore che mi dice: “Scommettiamo che fra due anni il buco sarà ancora così?”.

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domenica 26 maggio 2013

Le terre di Sant'Imerio

Un fiumicello di scarso interesse per brevità di corso nasce dalla montagna dei Fiori, da Colle Appeso a quota 1350, dopo una discesa rapidissima verso Maltignano, con acque fredde e chiassose, prendendo ad Est si allarga in una valle alluvionale tra creste di colline verdi e coronate da cittadine civettuole e borgate ridenti che lo accompagnano nel tortuoso cammino al mare.

"Su una di queste amene colline, a 200 metri di altezza sul livello del mare siede il nostro Sant’Omero … ".

Inizia così il libro di Franco Zechini che, negli anni ‘70, raccontava con dovizia di particolari la storia di questo borgo della Vibrata che gronda di antichità, vigne lussureggianti, badie affascinanti, gastronomia, cultura, folklore e vicende storiche.

Un’esistenza millenaria testimoniata da ritrovamenti di villaggi di epoca neolitica, di sesterzi romani, sarcofaghi di età bizantina, piccoli idoli in pietra o in bronzo, busti marmorei, resti di colonne antiche, frammenti di epigrafi.

Sant’Omero è stato crocevia di popolazioni, dai Siculi ai Viburni, dagli Umbri agli Etruschi fino ad arrivare ai Romani e poi, dopo la rovinosa caduta dell’Impero, alla lunga dominazione barbara, con Visigoti e Longobardi a turno pronti al saccheggio e alla distruzione.

Eppure questo paese, nonostante il suo fascino, è una meta colpevolmente trascurata della nostra provincia, acquattato com’è nella sua valle verde, circondata da terreni ubertosi che paiono dipinti dal pennello di un esperto artista.

Un luogo che facciamo nostro solo d’estate, quando va in scena il Festival del Teatro comico e quando valenti cuochi cucinano in mille maniere il baccalà proveniente dalla Norvegia, in una delle sagre più quotate d’Abruzzo.

Solo allora, tra grasse risate, linguine al sugo di pesce, fritto di stoccafisso, con tanto di trapestio variopinto, ci ricordiamo di questo antico sito archeologico che, nel corso degli anni, ha regalato preziosi reperti dell’antica Roma.
Basterebbe solo soffermarsi a guardare la luce e i paesaggi circostanti, con i Monti Gemelli scuri e netti in fondo all’orizzonte e una lingua di mare azzurrissima alle spalle da togliere il fiato, come davanti alla profondità di una tela di Monet.

Quanta religiosità, poi, nelle vicende del Vico Stramentario che diede i natali ad uno degli anacoreti più studiati dagli agiografi, quel Sant’Imerio che si nutrì per anni di erbe, acqua, preghiere e atti di carità, prima di diventare vescovo a Cremona.
E quanta umiltà nella storia del beato Migliorato, fraticello che per ore e ore custodiva i porci ringraziando Dio per quel lavoro infame.

È in questo posto magico, isolata nella sua altera bellezza, ai margini del torrente Vibrata, nell’antico vicus romano inteso come borgo, che troviamo forse il più antico esempio di edificio religioso anteriore all’anno Mille: la chiesa di Santa Maria a Vico.
Il primo documento storico che parla del sito è una Bolla Papale di Anastasio IV, risalente al 1153.

Architettonicamente il tempio si presenta con la classica facciata in laterizio, con un portale in pietra che reca l’immagine scolpita dell’Agnello Mistico e sormontato da un bel rosone.
La piccola torre campanaria, costruita nel XIV secolo, forma un corpo unico con l’intero edificio.
Entrando si trovano tre minuscole navate, sette arcate con colonne che terminano in un abside semicircolare.

Le pareti sono affrescate ed è stata recentemente restaurata una tela raffigurante la Madonna con Bimbo che sale in cielo fra le nuvole.
Il pavimento è fatto di lastre di pietra antiche.
L’interno è volutamente in penombra, per aiutare la meditazione di chi si ferma.

Da quattro finestrelle, chiuse da grate in pietra intagliata, entra la poca luce esterna.
Il monumento, che si trova in campagna e in splendida solitudine, è preservato anche grazie alla sapiente cura dei Cultori di Ercole.

Il nome affascinante di questa associazione culturale nasce dal ritrovamento di una lapide incisa, risalente all’incirca all’anno 100 d.C., rinvenuta a fianco della chiesa, a diversi metri di profondità, ora collocata su di un muro interno del tempio.

La scritta sulla pietra decretava il giuramento dei fedelissimi dell’imperatore Traiano Augusto che, in memoria di Claudia Edonia e il figlio Claudio Imerio, già cultori di Ercole, promettevano solennemente che ogni anno in ricordo della nascita di Imerio, si celebrasse un solenne banchetto nel tempio di Ercole.
Il lauto banchetto commemorativo si svolge ancora oggi ogni anno, ai primi di febbraio.




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sabato 25 maggio 2013

Il colle dell’Annunziata.

La strada sale lentamente, abbandonata la via Maestra del Parco, affrontando con curve strette un paesaggio severo tra valli scoscese e boschi.
Il Gran Sasso negli occhi.

Le superbe guglie cristalline proiettate nel cielo.

Le montagne si rincorrono accartocciandosi una sull'altra e i prati sono una tavolozza che cambia continuamente aspetto in questa estate seducente dal cielo azzurro.

La nostra meta è il Colle San Marcello o dell’Annunziata, che si staglia a 1000 metri di altitudine, sopra il borgo montano di Fano Adriano che si raggiunge prendendo il bivio in piazza con la denominazione della chiesa.
Davanti agli occhi gli imponenti Monte Corvo e Intermesoli.

All’altro lato le piramidi naturali dei Monti Gemelli.

Sullo sfondo si stagliano la Rocca di Civitella e la montagna dei Fiori tra delicate sfumature rosato lilla che danno l’idea di un mazzo di fiori di campo dentro un vaso a colori.

E poi le misteriose alture dei Sibillini e la vallata punteggiata da minuscoli borghi come Senarica, Intermesoli, Tottea, Nerito.

Quasi dimenticavo che siamo qui perché su questo colle si erge la deliziosa chiesina dedicata all’Annunciazione dell’Angelo alla Vergine.

Tornando a ritroso nel tempo, già prima del 100 A.C. vi erano qui degli abitanti che adoravano i loro dei inerpicandosi fin quassù per cercare di espiare colpe pregando più vicini al cielo.

Tra le ipotesi affascinanti che potremmo formulare c’è che l’antico nucleo dell’odierna “Fano” può essere identificata con la mitica e vetusta città di “Pitino”, tanto citata da Plinio che, nei suoi scritti, la posiziona “di là dal fiume Novano”.

La Cona dell’Annunziata è molto più che affascinante.
Conserva dei muri di grossi blocchi di arenaria locale che sembrano essere appartenuti a un tempio pagano.

Era una sorta di ara votiva a una divinità agreste.
Purtroppo molti resti sono stati divorati dal tempo e dall’incuria degli uomini.
 Il posto dovette essere anche romitorio se è vero che molti religiosi si ritirarono colà per vivere in solitudine e in preghiera.

Una leggenda, poco nota, racconta di un misterioso quadro, oggi scomparso, la cui venuta in questa chiesa è avvolta dal mistero.

Nel luogo strategico da cui si domina la vallata del Vomano, sembra esistesse nel medioevo una struttura fortificata.

Uno straniero portò fin qui un dipinto a olio rappresentante la Vergine.
Essa era di rara bellezza, in tunica amaranto e manto verde che scendeva sulla spalla sinistra, seduta sulle nuvole con grembo il Bambino nudo.

In basso una teoria di anime in attesa di purgarsi.

Il quadro sembra realizzasse miracoli a chi, con animo puro, vi si accostava.
Ancora oggi, la piccola chiesa custodisce numerosi ex voti di grazie ricevute.
Il quadro scomparve misteriosamente durante la seconda guerra mondiale.

I fedeli giurarono che la tela non fu rubata ma che si celò di colpo agli occhi di tutti.
Una visita a questo tempio immerso nella natura vi farà vivere attimi dai ritmi antichi, in splendida solitudine, immersi in una realtà inventata per chi ha voglia di parlare con Dio.

Ridiscendendo dal colle concentriamoci sul bel paese di Fano Adriano.

Dalla terrazza del Belvedere, al Parco della Rimembranza, che si affaccia sulla rocciosa vallata del Vomano, scorgendo il monte sulla cui sommità si trova, arroccato, San Giorgio, si capisce perché questo è definito uno dei Comuni più belli del Gran Sasso teramano.

Una visita alla cinquecentesca chiesa di San Pietro, con un portale che merita attenzione e un interno di rara bellezza, dove svetta un pregevole soffitto ligneo e un organo del settecento incredibilmente bello.

Regalatevi una bevuta dell’acqua diuretica e leggermente acidula che sgorga dall’antica fonte della Cannelecchia, che esperti datano intorno al 1300.
Bere ogni giorno per almeno un mese quest’acqua a digiuno, sembra abbia il potere di disintossicare le vie biliari.

Fermandovi al bar, in trattoria o da qualche pastore per comprare il formaggio, sarà facile intuire che la gente di questi posti ha un modo schietto e genuino di relazionarsi al viaggiatore di passaggio.

Un grazie per le foto della chiesa a quell'artista che è Alessandro de Ruvo: visitate www.adrphoto.com

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venerdì 24 maggio 2013

Dalle faggete di Prati di Tivo alle immensità di Campo Imperatore

Dalla parte alta del borgo di Pietracamela, una mulattiera panoramica a mezza costa consente di addentrarsi in una delle valli più belle degli Appennini: la profonda Val Maone, cuneo fantastico che separa il Pizzo d’Intermesoli dal Corno Piccolo e il Corno Grande.

Il percorso, adatto a tutti, attualmente è in via di ripristino dopo l’interruzione dovuta all’alluvione del 2011.
Si presenta ombreggiato da faggi per il tratto iniziale e può essere intrapreso anche dalla stazione turistica dei Prati di Tivo.

Si arriva alla prima tappa che tocca le cascate e la sorgente del Rio Arno.
Molti potrebbero già sentirsi appagati e trascorrere del tempo a riposare in questo luogo così bello.

Chi ha buone gambe prosegue, tra grossi blocchi di calcare, ai piedi dei pilastri rocciosi del Pizzo.
La salita porta in località “Capanne”, luogo antico di sosta dei pastori e le loro greggi.
Sono stazzi in pietra a circa 1950 metri di quota.
Saranno circa tre ore e mezzo se non ci si farà prendere da un riposo troppo lungo alle cascate.

Da qui, gli incontentabili saliranno ancora per un’ora, ai 2260 metri del Passo della Portella con i suoi caratteristici spuntoni di roccia. Il luogo è stato frequentato per secoli da mercanti e viaggiatori.

Il premio per la fatica?
Un panorama fantastico su quasi tutte le vette più importanti del massiccio e la conca aquilana.
Un comodo sentiero a mezza costa tocca il “Passo del Lupo”, permettendo la discesa ai 2130 metri dell’albergo di Campo Imperatore.



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giovedì 23 maggio 2013

La valle del povero cristiano! Tra religione e natura.

“Se anche cantassi come gli angeli, ma non amassi il canto, non faresti altro che render sordi gli uomini alle voci del giorno e della notte”.
(Kalhil Gibran da Il Profeta)

I Vangeli spesso presentano Gesù ritirato in preghiera non in piazza, né all’angolo di una strada, ma in luoghi appartati, solitari, a volte in mezzo ad aspre montagne.

Questo dovrebbe farci riflettere su quanto sia necessario per ognuno di noi trovare il tempo ma anche il luogo adatto per dialogare con Dio.

Probabilmente ne erano convinti i tanti eremiti che sceglievano di isolarsi, per lunghi anni, in luoghi impervi e spopolati.
Pensavano i poverini che il mondo fosse un ostacolo sulla via della perfezione.
Mi pare fosse stato San Paolo di Tebe, morto nel 250 d.C., il primo anacoreta che la cristianità ricordi.

La valle del fiume Orfento, nel cuore del versante nord occidentale della Majella, è un infinito paesaggio dell’anima che invita a coltivare il giusto atteggiamento spirituale.
Un luogo che come pochi riesce a generare innumerevoli sentimenti, dall’entusiasmo, alla serenità, dall’armonia all’inquietudine.
È un posto dove ascolti solo il canto degli uccelli e il sommesso parlare delle acque incassate tra le rocce.

Dalla dorsale più elevata del massiccio che collega il Blockhaus con il monte Focalone, i Tre Portoni e la cima di Pescofalcone, c’è un solco gigantesco che scende in picchiata dai 2676 metri fino ai 600 del centro termale di Caramanico, tra fitte faggete e acqua scrosciante.
Ci troviamo davanti a un mondo popolato da lupi, cervi, orsi e aquile.
In mezzo a questo severo ambiente, tra rocce dalle forme curiose, si trovano i segni indelebili di una vita religiosa, intensa e ascetica.

Eremi a volte difficilmente accessibili, chiesine rupestri e sentieri un tempo percorsi da monaci e pellegrini, raccontano ancora di luoghi mistici, lì dove la religiosità popolare, dettata anche da figure imponenti come quella del piccolo frate, Pietro da Morrone, diventa valore aggiunto del turismo naturalistico.

L’eremo di Santo Spirito, situato in località Roccamorice, è sicuramente il più grande e famoso.

L’antico monastero rappresenta sicuramente quello che non si dovrebbe mai fare giacché ha subito, nel corso dei secoli, tante improvvide trasformazioni perdendo il profondo fascino che trasmette altri romitaggi.
In più ci si arriva in macchina e questo fa perdere un po’ di misticismo, ma il contesto in cui giace è qualcosa d’inspiegabile.
Non si può descrivere con la penna.
 Dovete arrivarci!

Nella valle poi è possibile raggiungere tuguri dall’enorme valore religioso e antropologico come quelli dedicati a San Giovanni, Sant’Onofrio e San Bartolomeo, situati su aspre pareti.
Luoghi rimasti del tutto intatti nei secoli.

Sono le memorie viventi degli antichi ripari di religiosi, pastori e carbonai, incastonati in spettacolari spaccature della roccia, linfa vitale di antiche leggende che raccontano di sette eremiti fratelli che si divisero gli anfratti più reconditi della valle.

Santo Spirito a Majella riesce comunque ancora a regalare le infinite sensazioni che colpirono il grande poeta Francesco Petrarca.

L’insigne toscano, nel suo trattato morale del “De vita solitaria”, definì pomposamente questo luogo, “la casa del Cristo”.
Dovette trovarsi a suo agio anche Celestino V, al secolo Pietro da Morrone, unico papa che, nella storia
millenaria degli eredi di San Pietro, ebbe il coraggio di abdicare.
L’infelice frate patì la condanna del sommo poeta Dante, che nel terzo canto dell’Inferno, impietosamente lo collocò tra i dannati, responsabile com’era del “grande rifiuto”.
Vi giunse nel 1246, rimanendovi per oltre quarantacinque anni.

Che personaggio per l’immaginario collettivo quello del papa eremita che morì povero e reietto nel castello di Fumone di Frosinone, imprigionato dal perfido successore, Bonifacio VIII.
Un quasi martirio il suo, volto a render chiaro a tutti noi che l’unica cosa importante è la vita eterna e non i beni e i poteri di questa misera terra.

Dovremmo leggere con attenzione l’opera del grande Ignazio Silone che ne “L’avventura di un povero cristiano”, tratteggiò sontuosamente l’esperienza di Celestino.

Nel 1300 il monastero fu abbandonato e solo nel 1586, grazie ad un religioso intraprendente, Pietro Cantucci da Manfredonia, la vita contemplativa tornò a fiorire.

Il monaco fece costruire una sorta di Scala Santa, scavando prodigiosamente la fiancata del monte sovrastante, che porta all’oratorio dedicato a Santa Maria Maddalena.
In seguito sorse anche l’attuale foresteria.

Per seguire le tracce di quest’antica vita religiosa, basta armarsi di scarpe buone e farsi vincere dal desiderio di conoscenza che mai dovrebbe mancare in ognuno di noi.

“L’ora più solare per me, quella che più mi prende il corpo, quella che più mi prende la mente, quella che più mi perdona, è quando tu mi parli”. (Alda Merini)

Per la valle dell'Orfento percorrere l'A25 Roma -Pescara, uscita Scafa. Poi S.S.487.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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mercoledì 22 maggio 2013

La Montecassino del mare! Alla scoperta di San Giovanni in Venere

“Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo santuario”. (Dal Salmo 27)



Sono diretto verso l’Adriatico dei trabocchi, nel cuore del golfo di Fossacesia, alla ricerca di una grande abbazia, seguendo le orme del patrono di Teramo, il vescovo Berardo.
Qui il sant’uomo affinò il suo dialogo stretto con il Creatore.

A ogni curva della statale che porta verso le spiagge, la strada sembra terminare con un salto nel blu cobalto del mare.
 La vita, dice Don Antonio Mazzi prete di strada, è l’eternità che cammina.
Non voltiamoci indietro, non avremmo milioni a sufficienza per comprarci il minuto già passato.

“Un paradiso terrestre, certo. Io amo chiamarla la Montecassino del mare”.
E’ un fiume in piena il signor Carmine.
Voce piacevole quanto il suono di un’unghia che scorre su di una lavagna ma cordiale e ricco di aneddoti.

Abita qui da ottanta e più anni, tra lecci e ulivi.
Alto, magro ha un grosso gozzo e un’età indefinita.
Porta in testa un buffo cappellino scamosciato bianco color torrone.
Mi chiedo cosa c’entri un copricapo di foggia tipicamente tirolese in mezzo all’Abruzzo del sud.

D’inverno, è solito col tempo buono, passare le ore meno fredde del giorno su questo balcone dove si affacciava anche il grande poeta D’Annunzio.
 Accanto a lui la moglie sembra meditare a occhi aperti.

La vecchietta ha delle nodose vene blu e la pelle traslucida come fosse impregnata di fard.
Forcine tra i capelli, la donna ha occhi arrossati, labbra violacee per la difficoltà di respirazione.
Non dà l’idea della salute.
Temo possa decedere da un momento all’altro.
Mi guardo intorno, rapito.

L’abbazia di San Giovanni in Venere è una meraviglia di pietra, autentico capolavoro di architettura sacra medioevale, posto su di un balcone del panoramico promontorio dedicato alla dea della bellezza, a picco su Fossacesia.

Siamo su di un colle dolce che pare un Getsemani circondato da ulivi e racchiuso tra le possenti mura della struttura religiosa.

Chiudendo gli occhi si può immaginare una piccola Gerusalemme e sentirsi pervasi dalla pace.

A pochi chilometri c’è la bella Lanciano con le sue eleganti torri Montanare, la chiesa di San Francesco del 1258 che ospita la reliquia del Miracolo Eucaristico e l’elegante esempio di architettura neo classica di Santa Maria del Ponte.

“Ma non credere che sia sempre così con quest’azzurro splendente fino all’orizzonte – ammonisce il loquace vegliardo- quando infuria il vento, quello che fa cadere i denti senza la tenaglia, il mare muggisce da metter paura!”

Guardo in lontananza la grande distesa d’acqua dell’Adriatico con i suoi trabocchi, macchine ingegnose di pesca e le colline digradanti fino l’arenile.

La pioggia degli scorsi giorni ha spazzato via la polvere immobile, lasciando libero il respiro infinito della natura.


Mi sento stregato dalla bellezza che ho negli occhi.
Il mare m’incanta quanto la montagna.
Il pianeta liquido è un mondo fantastico al pari di quello terrestre.
La sua energia positiva dovremmo farla entrare dentro di noi, nelle miriadi di cunicoli che attraversano il nostro povero corpo.

Osservo e immagino gli antichi marinai manovrare i remi, gli agguerriti saraceni cercare di sbarcare a riva per depredare e uccidere.

Poco distante c’è il trabocco turchino, la macchina da pesca immortalata nella tragedia dannunziana, che sembrava, per il Vate, una terribile catapulta romana in procinto di lanciarsi contro le acque profonde.

Tutto intorno alla collina dell’abbazia, boschi di lecci, agrumeti, olivi, vigne e macchie di ginestre che puntellano di giallo il verde ocre a formare, col blu del mare e il grigio lontano della Majella, una tavolozza del Tintoretto.

Siamo in un anfiteatro di straniante bellezza solcato nel cielo dai gabbiani che, incessanti sentinelle di questo bello assoluto, accompagnano lo sguardo dal mare verso i monti.

I monaci cistercensi che vi giunsero intorno al mille erano buon ultimi dato che, numerosi rinvenimenti preistorici nel corso degli anni, hanno testimoniato l’esistenza d’insediamenti umani a partire dal VII millennio ante Cristo.

Durante alcuni lavori di scavo nell’abbazia, vennero alla luce frammenti di materiali provenienti da periodi storici diversi che vanno dall’età del ferro all’ellenistica.

Suppellettili, scheletri e anfore recanti scritte in greco e in latino che fanno presumere il ruolo della costa dei Trabocchi e delle vicine Tremiti, punto di contatto e di scambio con mondi diversi.

I religiosi dovettero faticare non poco per vincere la fede per la dea Venere.

Costruirono convento e chiesa acquisendo proseliti cristiani grazie anche ai tanti ulivi, vigneti e alberi da frutta che furono impiantati per dare benessere a chi viveva solo dei prodotti del mare.

Ancora oggi gli scheletri dei patriarchi di quegli ulivi millenari sono in piedi, nonostante i fulmini e le intemperie subite, fieri di non temere il lento trascorrere del tempo.

Si racconta che l’abate di questo luogo sacro, tal Oderisio I, nel 1076 costruì il bel paese di Rocca San Giovanni che si raggiunge a pochi chilometri dalla costa, tra fossi e calanchi spettacolari. Parliamo di uno dei borghi più belli d’Italia, inserito nella speciale classifica italiana, unico nella provincia chietina dal 2006. Il priore lo fortificò con mura possenti e torri di avvistamento.
Ancora oggi, il camminamento sulle antiche balaustre emoziona e non poco.
Fra l’altro a Rocca si beve ottimo vino e si pasteggia con olio sopraffino, passeggiando tra palazzi aristocratici e giardini.

La facciata dell’antica basilica è austera e semplice.
Attraverso il portale decorato da bassorilievi in pietra bianca, entro e il buio, trafitto da polverosi raggi di sole, sembra urlare.

L’abbazia oggi si presenta a tre navate separate da due file di cinque pilastri, di stile cistercense dalle maestose volte con travi di legno.
Le grandi pareti sono spoglie.
I dipinti si concentrano tutti nella cripta di sotto dell’immenso presbiterio a pianta rettangolare e con ben tre absidi.
La luce è fioca, i personaggi degli affreschi sembrano volersi strappare dal muro per bere gocce di chiarore.

Tutto invita a dimenticare il mondo esterno: la leggerezza delle colonne pur maestose, l’insieme e soprattutto, il silenzio leggero e non incombente che permette ai cuori di ricongiungersi con la parte più intima e segreta del proprio animo.

Penso allo splendido Cantico di Sion, frutto del genio poetico e profetico di Isaia (2, 2-5): “Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore”.

Due donne sono immerse nel rito devozionale del rosario.

Pietro Calabrese, giornalista recentemente scomparso, ateo ma non troppo, ammoniva a non sottovalutare la forza e la dolcezza delle preghiere di quei fortunati che possiedono il dono della fede.
Vero che, anche per i non praticanti secondo lo scrittore, le preghiere conservano un senso di mistero e infinito che solo uno stupido accecato dai pregiudizi sottovaluterebbe.

Colpiscono l’immaginario i troni in pietra usati dai monaci e la stele che ricorda la breve permanenza, in questo luogo sacro del vescovo Berardo che qui si raccolse in preghiera prima di ascendere alla
cattedra episcopale di Teramo.

Getto uno sguardo al lussureggiante giardino mediterraneo del convento. Cipressi, palme, rododendri, quasi si abbarbicano sul portico a tre lati.

Il piccolo parco è testimone della serenità e della pace di un antico stile di vita legato ai valori spirituali.
La temperatura ora è decisamente dolce. Mi fa sudare ma si accorda bene con il mio umore.

Respirare i salmastri che giungono dal golfo, è un tranquillante dello spirito.
Non trovo le parole per rendere la bellezza del luogo.

Il promontorio di San Giovanni in Venere si raggiunge dal casello di Val di Sangro della A14 statale Adriatica fino a Fossacesia Marina e deviando all'interno. Da Fossacesia si può risalire l'Adriatica a nord per la via dei Trabocchi fino a Ortona!

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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