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mercoledì 31 luglio 2013

Nel bosco del dio della guerra

In un bosco esiste la magia.
La percepisci quando ti senti parte della foresta e quasi riconosci ogni singolo albero o foglia caduta, sentendoti un tutt’uno con la natura.
Una sensazione meravigliosa!
Una magia ipnotica che costringe a trovare alternative alla certezza della vita.

La quotidianità che incontra lo straordinario, invadendo ogni cellula del corpo e della mente, come una malattia incurabile, inesorabile che non dà certezza di cura.
Mi accade sempre di pensare a tutto questo quando mi trovo nell’angolo più isolato e selvaggio della Laga, di quella terra che rappresenta una splendida invenzione della natura, dove sorge una delle più rare zone isolate d’Italia: il Ceppo, località turistica del teramano con il Bosco Martese d’incomparabile bellezza.

Parliamo di una foresta tra le più spettacolari nel mondo, dove sopravvivono una fauna e una flora autoctone tra le più importanti degli Appennini.
La fitta e immensa selva è immersa nel corso del Rio Castellano, ed è stata definita dai botanici “una perla dai vividi colori”.

La località turistica del Ceppo è rinomata per la raccolta dei funghi porcini di qualità eccelsa, ma è anche stato tragico scenario storico, in tanta beltà, di episodi sanguinari ed eroici della resistenza partigiana.

Ammazzalorso, Capuani, Orsini, Fioredonati e tanti altri partigiani, scrissero qui delle pagine gloriose tali da far chiedere a gran voce la medaglia d’oro per Teramo e la sua provincia.
Fu “la prima battaglia in campo aperto dell’antifascismo italiano” che segnò profondamente la storia della nostra terra.

Qui fu giustiziato, sommariamente, il comandante dei tedeschi, Hartmann, un uomo di aspetto gigantesco con una testa enorme e fu sempre qui, quasi nel punto in cui cadde il Maggiore di Hitler, che fu trucidato Mario Capuani, dottore pediatra, aderente al gruppo “Giustizia e Libertà”, del quale fu autorevole esponente il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

Il 27 settembre 1943, alle prime luci dell’alba, i tedeschi si recarono a Torricella Sicura e lo catturarono nella sua casa. Condotto a Bosco Martese, fu sottoposto a processo nella casa cantoniera.
Gli fu chiesto se era stato tra gli organizzatori del raggruppamento di uomini che avevano attaccato e ucciso quaranta soldati tedeschi e il loro comandante Maggiore Hartman.

Mario Capuani rispose senza indugio, “sì”.

Gli fu chiesto se intendesse collaborare con la Repubblica fascista. Rispose, “mai”.
Condannato a morte, fu ucciso con un colpo di pistola alla nuca e seppellito in un campo di fagioli vicino alla casa cantoniera al limitare del bosco.
Il corpo del dottore fu recuperato dal cugino Nino, aiutato da un amico fioraio, Di Carlantonio.

Nella fossa dietro la casa cantoniera, furono trovati altri cinque partigiani fucilati, che non furono identificati perché privi di documenti d’identità.
 Le salme vennero sepolte nel cimitero di Torricella Sicura.
Il dottor Capuani ebbe sepoltura nella tomba di famiglia e fu insignito di Medaglia d’Oro al valore militare e per meriti partigiani.

Oggi, in questa località, a trentacinque chilometri da Teramo, si può visitare l’enorme monumento che, nel 39esimo dell’insurrezione fu innalzato sopra un’altura circondata da abeti, in ricordo dei tragici avvenimenti.
Sono due gradinate con rampe di scale, che girano attorno ad un bassorilievo bronzeo ideato ed eseguito da Dino Di Berardino di Corropoli, che raffigura un partigiano in armi.

Un altro simulacro posto a sette chilometri dal Bosco Martese, opera dell’artista Silvestro Cutuli, calabrese impiantato da sempre a Teramo ricorda, con una stele dai cinque riquadri spezzati, il sacrificio di cinque dei sette partigiani trucidati il 25 settembre del ’43.

La storia è drammatica anche qui: oltrepassato il Comune di Torricella Sicura, per una spiata, i giovani combattenti furono catturati dai i tedeschi mentre si erano recati al Mulino De Iacobis per approvvigionare di farina, l’accampamento partigiano del Ceppo.

Tornando all’aspetto naturalistico, fare una passeggiata fin quassù significa godere della vista di un bosco ricco di essenze.

L’abete appenninico, il faggio, gli aceri, il tasso, la betulla, i giganteschi abeti bianchi, i carpini neri.
Con una gradevole scarpinata attraverso una mulattiera agevole, al di fuori del bosco, si raggiunge la località Lago dell’Orso a circa 1780 metri.

Un’incomparabile vista sul Gran Sasso ripaga della camminata.
Veramente una bella sensazione essere soli in mezzo alla magia della natura in questa foresta dedicata al Dio Marte, il grande guerriero.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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martedì 30 luglio 2013

Villavallelonga: il respiro della natura!

C’è una parte d’Abruzzo, nel cuore del Parco Nazionale più vecchio d’Italia, che meriterebbe di essere conosciuta per le sue bellezze naturali e per la storia che custodisce.
Questa è una delle parti più selvagge della regione: Villavallelonga e la vicina Collelongo, offrono più di uno spunto per vivere una giornata indimenticabile in qualsiasi stagione.

Villavallelonga è uno dei centri turistici più importanti, immerso in uno stupendo paesaggio fatto di faggete e praterie e le escursioni possibili, da fare in ogni stagione sono praticamente infinite.
In inverno si pratica sci di fondo o cammino con le classiche racchette ai piedi, in estate si percorrono sentieri escursionistici di rara bellezza.

Forse, però, è l’autunno con le sue giornate ancora miti e i suoi colori ineguagliabili, che possono entusiasmare al massimo chi ama la natura.

È consigliata una visita al Centro dell’Orso del Parco Nazionale d’Abruzzo.
Vivono dentro la grande struttura, in stato di semi libertà, due esemplari di plantigradi, Yoga e Sandrino, conosciuti simboli viventi dell’area protetta.

Gli orsi del Parco hanno bisogno di grande tutela essendo ormai ridotta la loro presenza, in circa cinquanta esemplari di cui alcuni in cattive condizioni di salute.
Alla fine degli anni ’60, la popolazione dell’orso bruno marsicano si attestava sugli oltre settanta esemplari.
Il rischio estinzione è più che mai reale.

Negli anni ’70 e fino al primo decennio del ’90, questi animali sono stati barbaramente cacciati a suon di pallettoni, da allevatori senza scrupoli convinti che costituissero un pericolo per il bestiame.
Molti esemplari furono avvelenati prima che si capisse che i giganti della foresta dalla corporatura tozza, che eretti raggiungono quasi i due metri, altro non volevano cibarsi che di radici, frutta, bacche e minuscoli animali.

La passeggiata in questi luoghi può far scoprire altri animali che popolano la fantasia dell’uomo: cervi, lupi, camosci, gatti selvatici, tassi, volpi e donnole.

In poco più di mezz’ora di auto da Villavallelonga si raggiunge la fantastica e fiabesca valle dell’Aceretta e ci si regala ore di pieno contatto con la natura più intatta.

In questi luoghi si rifugiavano grandi uomini quando c’erano da prendere decisioni importanti, come papa Wojtyla o Aldo Moro.
Tornando a Collelongo, è vivamente consigliata la visita al sito archeologico italico- romano di Amplero con le necropoli da cui sono stati rinvenuti importanti reperti di tombe con corredi funerari e il Museo di civiltà contadina, tra i più completi dell’Italia centrale.

Si arriva in questi luoghi attraverso la A 25 uscita Avezzano, poi seguendo la provinciale Ultrafucense da Trasacco.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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lunedì 29 luglio 2013

La mia terra è “god’s own country”, la terra di Dio

(Tratto dal libro "Il mio Ararat").

Esistono modi di viaggiare diversi: uno è quello della velocità, della prestazione, del tempo che stringe, del paesaggio che scorre veloce e distante da dietro i finestrini.

Un altro è quello dell’attenzione, della curiosità, del rapporto con luoghi, gente, natura.

Quello meraviglioso degli odori, dei sapori, del tempo che scorre piano come un lungo fiume tranquillo.
Quello dell’emozione.
Quello del sorriso.

Muoversi a piedi vuol dire mettere da parte per un po’ l’ansia, per immergersi fino in fondo nell’emozione del viaggio, conoscere il mondo toccandolo, gustandolo, ascoltandolo.
Questo è un racconto nato sul campo, ma è anche un manuale per mollare tutto e prendersi un tempo per tornare in sé stessi, per ritrovare lo stato d’animo che è dentro ognuno di noi.
Siamo tutti potenziali vagabondi. Solo che spesso lo dimentichiamo.
Bandiamo la fretta, entriamo nella vita a tempo pieno. Perché, chi vive vede molto, ma chi viaggia, amici miei, vede di più!

Gli alberi sfilano veloci nel riquadro del finestrino. Quando il treno rallenta, sbuffando, sembra che si ammassino l’uno sull’altro divenendo un’indefinita massa verde e marrone.

Nel piccolo scompartimento siedono due donne enormi, una di fronte all’altra.

La più giovane delle due è intabarrata nonostante non sia freddo, in una sciarpa nera che l’avvolge come pece.
Inforca e toglie dal naso i grossi occhiali neri. Non emette neanche un sibilo.
Guarda fisso un punto indefinito del suo orizzonte e pare curva sotto il peso di non si sa che.

Le poltrone di seconda classe paiono nicchiare per lo sforzo di mantenere le grazie debordanti delle due. Se non fosse per la loro enorme mole, il vagone sarebbe quasi vuoto.
È un evento straordinario che mi ha fatto infilare in questo treno.
È stata la voglia di assaporare la natura come si faceva un tempo.

Alzo il volume dell’ipod dal quale escono leggiadre le note della colonna sonora del famoso film “Mission”.
La musica crea la giusta atmosfera per una giornata in ambiente.
D’improvviso, ecco il treno si ferma dopo un grosso sobbalzo all’indietro che quasi mi fa cadere il diffusore musicale.

Nessuna voce dall’altoparlante, nessun avviso.
Rimaniamo così, fermi per un tempo che mi pare lunghissimo, in mezzo alla natura nel cuore d’Abruzzo.

Nella piana di mezza estate, che si estende ai piedi di una serie di piccoli rilievi, i vigneti a perdita d’occhio colorano di verde intenso, rosso maculato e giallo dorato tutto il visibile.
Me li immagino in inverno, con il loro aspetto sofferto e contorto, viti scheletriche dai piccoli tronchi avvinghiati a se stesso in forme spettrali che spuntano da un manto nevoso.
Poi, li vedo nella veste primaverile, con lo spettacolo ineguagliabile della fioritura.

In alto, un borgo antico mostra con orgoglio la mole di una torre, i poveri resti di un castello, le case fortificate con un campanile che sembra una matita aguzzata da poco.
Ripenso alla storia artistica di un amico pittore, il teramano, Franco Tommarelli.

Munito di enormi fogli bianchi, da anni porta su schizzi, tutto quello che vede: paesaggi, prati, fontane, sprazzi di vita semplice.

Grazie ai suoi dipinti del cuore che realizza tenendo lo sguardo fisso sulle montagne che alimentano gli alberi, colonne dritte di un tempio vivente, si ha la sensazione di sentire i profumi del bosco, l’umidità di un muro scrostato o gli odori persistenti di un gregge al pascolo.

Ecco, immaginarlo qui, perso tra queste valli sormontate da montagne a dar di pennello in un magico acquerello, riempie il cuore.

I nostri ragazzi oggi hanno il loro mito in un eroe della pedata o in un cantante dall’ugola arrangiata. Il mio esempio in terra, è Bruce Chatwin.
Non è un calciatore dell’Inghilterra, né un attore emergente.
È stato uno dei più controversi romanzieri del Regno Unito nel novecento.

Lo amo per quel che è stato: uno dei più grandi viaggiatori.
 Certo fu uno dai comportamenti bizzarri, nient’affatto bello e, dicono, peloso in maniera imbarazzante.
Ebbe vita breve, scomparve circa trent’anni fa, ma spese quasi ogni giorno della sua esistenza per girare il globo.
Fu l’archetipo del viaggiatore, camminando verso il mondo e ritorno.

Scrisse fra l’altro che: “l’atto del viaggiare crea una sensazione di benessere, mentre la monotonia del lavoro fisso, tesse nel cervello trame d’inadeguatezza”.
Certo, ha scoperto l’acqua calda!

Vorrei ben vedere chi, potendo scegliere tra viaggiare o lavorare, decida per quest’ultima attività.
Si viaggia per consumare i luoghi con la vista, fotografarli nella memoria.

Il vagabondare attraverso l’Abruzzo è molto di più. È come avere tanti colpi di fulmine in un concentrato di magia declinata in panorami, atmosfere, profumi, tradizioni, testimonianze che il tempo custodisce.
La mia terra è “god’s own country”, è anche la terra di Dio.

I paesaggi sono meditativi e, negli animi sensibili, certi spettacoli della natura aprono un dialogo spontaneo con Dio.
Ma, anche un non credente rimane affascinato a chiedersi da dove venga tutta questa bellezza.
Un incantesimo inutile da immaginare perché assolutamente da vivere

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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domenica 28 luglio 2013

I misteri delle gole del Salinello

Una delle più classiche escursioni da fare a inizio estate è l’attraversamento delle gole del Salinello, località Ripe di Civitella del Tronto fino ai ruderi dell’antico castello del re Manfredi nella piazza d’armi, delimitata da cinque mozziconi di colonne di pietra che, al tramonto, paiono sinistri gendarmi ciondolanti.

È bellissimo guardare in fondo al cuneo, che si stringe tra i resti della rocca e le gole sottostanti, l “Hadriaticum Mare” già annotato nelle prime carte geografiche, sulla sesta Tabula di Tolomeo e menzionato da Eratostene.

Qui passavano le vie del sale, del grano, dell’olio, del vino e Dio solo sa quanti altri commerci preziosi di spezie e seta, ambra e oro.

Nelle boscose viscere di uno degli scenari più insoliti della dorsale appenninica, si cammina in mezzo a due vertiginose pareti, alte svariati metri, circondati da una straordinaria natura.

Tra gli angusti spazi che sembrano stringere fino a soffocarti, si aprono spiazzi erbosi tra alberi che lasciano a terra i loro semi, felci ai bordi del tumultuoso corso d’acqua, biancospini, ginestre e cicorie di montagna.

Questo luogo attrae irrimediabilmente con storie di maghi, mostri, negromanti e fattucchiere.

Gli eremi che costellano le pareti, le antiche e paurose leggende dettate da anacoreti non possono lasciare indifferenti.

È un contesto di culto della terra e dell’acqua, un percorso sacro che lascia strabiliati.
Chi vi si addentra si sente piccolo di fronte all’immensità.
Non è così per tutti, purtroppo.

Nella grotta di S. Angelo, dedicata al culto di San Michele, ho trovato, ultimamente, curiosi segni per terra e qualche ossa di animale sistemate in strane posizioni.

Diversi amici naturalisti, innamorati di questi luoghi, sostengono che qui si perpetrano riti satanici da molti anni.

Qualcuno vede sempre strani movimenti di gente dalla testa rapata.

In paese a Ripe di Civitella del Tronto, sia il parroco sia i politici hanno sempre minimizzato questa eventualità.

Salendo faticosamente in doppia corda nell’antro di Santa Maria a Scalena, forse il buco più denso di misticismo, sono rimasti basito nel vedere che qualche idiota è arrivato in questa posizione disagevole, solo per imbrattare i muri con bombolette spray, di svastiche, croci uncinate e bestemmie.

Dico, come si fa?
Si dovrebbe provare un profondo rispetto per questo luogo.

Non credo che, come dice la leggenda, qui sia passato San Francesco e abbia combattuto contro il diavolo alla ricerca di anime.
Né tantomeno penso sia vero che ci siano tesori abbandonati sorvegliati da giganti tenebrosi, ma l’aria che si respira sembra intensa di anime.

Questa sensazione si vive per tutto il percorso che dalla cascata de “lu Caccame” in un intreccio di felci, minuscoli bonsai naturali, muschi e rovi, porta fino alle pietre di Castel Manfrino.

Per anni gente ha scavato nel miraggio di trovare preziosi ma nessuno ha estratto niente a parte cocci antichi e ossa umane.

Qui sono i sogni a brillare come oro.
Di resti umani ce n’erano e non tutti pare fossero molto antichi.

Secondo alcuni vecchi interpellati, un giorno un tizio si è imbattuto in un cranio con un po’ di pelle ancora attaccata come in macelleria. In paese non danno credito a questa storia.
L’uomo, che secondo alcuni suoi conoscenti non distinguerebbe una testa umana da una di volpe, spaventato avrebbe preso la scatola cranica, buttandola nel precipizio delle gole.

La verità forse è che in mancanza di tesori, si cerca di trovare un po’ del marcio che è dentro di noi per buttarlo via.

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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sabato 27 luglio 2013

Da Frattoli alla sorgente Pane e Cacio di Sella Laga: a picco sul lago di Campotosto

Dislivello 650 metri; tempo di salita 2 ore circa: discesa 1 ora circa; itinerario parzialmente segnato con bolli bianco rossi.

È un lungo percorso a saliscendi con vista sul Gorzano e le Cento Fonti.
In parte è in cresta con magnifici scorci sul lago.
Siate prudenti e munitevi di altimetro e cartina

Dai 1119 di Frattoli si arriva alla sorgente e alla Sella Laga a 1976 metri.

Dal paese in auto, si segue la sterrata che sale a svolte per i pendii soprastanti l’abitato.
Oltrepassata una croce si entra nel bosco di faggi, (1450 metri).

Lasciata a destra una carrareccia secondaria, si raggiungono i 1650 metri, a meno di cinque chilometri dal paese.
Ora si sale a piedi fino a 1724 metri dove s’incontrano cartelli in legno.
Si continua sulla strada dissestata e in leggera discesa.

In breve si raggiunge un fontanile e uno stazzo di pastori a 1673 metri.
C’è una bella vista sul monte Gorzano e la valle delle Cento Fonti.
Finita la sterrata, si piega a sinistra, confortati dai segnavia bianco rossi.
Per prati si sale seguendo il crinale della Macchiarella.

Lo si lascia presto per un evidente sentiero che traversa il ruscello del Fosso di Malbove.
 Con vari saliscendi si raggiungono i 1900 metri di una cresta che scende a Colle Senarica.

Ora si procede in discesa, entrando nel bosco.
Si aggira un ultimi crinale, entrando nel bel Fosso della Laghetta.
Traversato il torrente si abbandonano i segnali, proseguendo paralleli al corso d’acqua.
Toccato un ometto, si raggiunge la sorgente Pane e Cacio e Sella Laga, affacciata sulla conca aquilana del Lago di Campotosto.

Per gli esperti, l’aerea e panoramica cresta può portare, in circa un’ ora e mezza, al Monte di Mezzo, spartiacque tra Laga e Gran Sasso.




Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

Tutti gli articoli sono condivisi su Facebook nella bacheca di Sergio Scacchia e nella pagina "Il Mio Ararat" e su Google Plus.

Gli articoli sono inoltre pubblicati da Vincenzo Cicconi della PacotVideo , tra l'altro gestore di questo blog, su:
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venerdì 26 luglio 2013

Le “grotte dei Sarracini” ad Atri.

Grazie Lucio De Marcellis!



Tutti conoscono Atri e i suoi gioielli.

Pochi sanno che questa città d’arte ha una parte ipogea che nasconde fontane antichissime, grotte scavate ai margini del paese e un ingegnoso sistema idraulico sotterraneo.

Adriano De Ascentiis, direttore dell’Oasi WWF dei Calanchi comunica che, da diversi mesi, c’è la possibilità di partecipare a interessanti escursioni organizzate gratuitamente dal personale dell’area protetta.

Il centro abitato, c’informa il direttore, è localizzato su tre piccoli colli denominati Maralto, di Mezzo e Muralto, a un’altezza di 445 m s.l.m. e poggia quasi esclusivamente su conglomerati di tetto che, causa la loro notevole permeabilità, sono facilmente attraversati dall’acqua.

Tale caratteristica ha indotto le genti che occupavano in epoca preromana il territorio atriano a escogitare stratagemmi che sfruttassero tale prerogativa.

Sono stati realizzati nel sottosuolo dei principali colli, cunicoli sotterranei destinati alla captazione e al convogliamento delle acque percolanti sorgive in zone di approvvigionamento che oggi corrispondono alle antiche fontane atriane.

Tali strutture, probabilmente di derivazione persiana, consistono in ingegnosi sistemi idraulici sotterranei che, sfruttando la natura geologica del terreno e l’inclinazione dei cunicoli, permettono il deflusso delle acque in punti di raccolta, le fontane appunto.

Sistemi simili sono stati rinvenuti in altre aree del bacino mediterraneo, possiamo, infatti, ricordare i “qanat” in Siria e in Giordania, i “karez” in Afganistan e Pakistan, i “foggara” in Nordafrica, i “khittara” in Marocco, le “gàllerias” in Spagna.


Non mancano esempi nella nostra penisola, a Fermo, a Chieti, Palermo e a Matera.
L’enorme e ramificata rete di cunicoli, cisterne, pozzi e fontane, presente sotto il centro storico di Atri, faceva parte di un unico grandioso sistema idrico di epoca preromana.

Uno degli ipogei più belli, presente poco fuori le mura cittadine, è quello delle “Grotte dei Sarracini” e delle “Macinelle”.

Qui, partecipando alle escursioni guidate gratuite dell’Oasi, si possono osservare frammenti d’intonaco di epoca romana, sul quale si trovano incisioni e decorazioni policrome.

I cordoli idraulici, alla base delle colonne, l’intonaco per l’impermeabilizzazione delle pareti, i segni di chiuse, lasciano presupporre che si trattasse di cisterne o piscine utilizzate per costipare acqua al fine di rilasciarla con scopi ancor poco definiti, poi utilizzate come luoghi di culto e/o di prigionia.

Resti di sedili e nicchie scavate nella roccia lasciano immaginare la possibilità che questi enormi stanzoni fossero adornati con statue per il culto.

Molto probabilmente, il sistema serviva a rifornire fontane o fabbriche un tempo presenti nelle vicinanze.

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giovedì 25 luglio 2013

Il polo museale di San Domenico a Teramo: occasione persa

Non tutti i teramani sanno che il convento di San Domenico a Teramo è stato, fino alla scomparsa di quest’ordine religioso in città, l’unico insediamento domenicano superstite nell’area abruzzese che comprendeva, secoli fa, centri spirituali della Campania, del Lazio e delle Marche.

Il visitatore attento sa che, nonostante aleggi nella chiesa una deliberata intenzione di sopprimere ogni elemento decorativo per conferire un aspetto spoglio ed austero, il tempio teramano appare comunque solenne e aristocratico.

L’appassionato di architettura sacra riconosce nell’aspetto puro ed essenziale, nella perfezione formale dell’insieme, uno dei maggiori esempi della cultura ecclesiale nel medioevo abruzzese.
Basta uno sguardo accurato, sia alla chiesa che al chiostro, per rimanere incantati. La visita in questo che è tra i più antichi edifici della città potrebbe riportare indietro, come in una prodigiosa macchina del tempo, al secolo XII.

Il convento ha conservato infatti gran dell'aspetto originario d’insediamento mendicante medioevale tra i più interessanti dell’Italia centrale.

La sua navata ad aula unica con tetto in legno, il chiostro con gli affreschi della vita di San Domenico, i manufatti lapidei, le sculture in terracotta policroma, il suggestivo interno buio e austero intervallato dalle lievi cromie delle opere pittoriche della zona absidale, donano il senso della storia, fuso con quello dell’umanità e della fede, per narrare in modo unico la grandezza di Dio.

La scomparsa dei domenicani a Teramo ha creato un vuoto incolmabile morale e culturale a Teramo.
Al pari dei francescani, i religiosi di San Domenico sin dal 1300, nel corso di una secolare permanenza in città, hanno donato tante iniziative, dalla creazione di gruppi Scout, al Terz’Ordine, fino ad arrivare alla formazione di fraternità di preghiere e corali liturgiche e polifoniche.

I domenicani con il loro zelo e con l’aiuto di Dio, hanno guadagnato l’affetto dei teramani.

Nel corso dei secoli il convento è stato caratterizzato da un insieme di attività; è stato luogo di culto e di studio, associazione socio-assistenziale religiosa, convitto, azienda agricola, giardino officinale, farmacia, sito di attività proto-finanziarie e bancarie, luogo di sepoltura, zona commerciale con la famosa fiera dedicata al santo.

In questa elencazione non può non essere ricordata la funzione religiosa, sociale e culturale svolta dalla “Cattedra Cateriniana” alla fine del secolo scorso, di cui resta una testimonianza in diverse migliaia di opere e di pubblicazioni, realizzate in questo cenobio, sull’Ordine Domenicano nell’ Italia centrale.

Negli anni ’30 e negli anni ’50 e ’70 del XX secolo, il convento fu interessato da lavori di restauro che ebbero il merito di portare al recupero dei dipinti murali quattrocenteschi collocati nell’abside e nelle pareti più vicine, dei dipinti murali del secolo XVIII del chiostro e dell’antico portale affiancato da due bifore medievali di accesso alla sala capitolare detta della “Cappella del Rosario”.

I lavori degli anni ’30, eseguiti e finanziati dallo storico teramano Francesco Savini, furono oggetto di forti critiche durante l’esecuzione e, ancora oggi, vengono citati dalla letteratura scientifica come un caso negativo.

Identica sorte per quelli effettuati negli anni ’50 e ’70, anch’essi di dubbio gusto.

Tra i restauri bisogna menzionare quelli dell’abside nei primi anni del 2000 che furono sostenuti dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Teramo.

San Domenico aveva tutti i crismi per diventare un centro di documentazione teologica e culturale, un museo che avrebbe narrato anche le vicende storiche e devozionali di Teramo.

Ancora oggi il sito è comunque un importante luogo di preghiera, grazie all’importante lavoro spirituale dei frati dell’Immacolata.

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mercoledì 24 luglio 2013

Sui silenziosi sentieri del piccolo Tibet d'Abruzzo

“La roccia è una fasciatura, la garza che medica dallo stress della vita!” (Mauro Corona)

Volete assistere ad uno spettacolo della natura?

Trovatevi all’’alba di un nuovo giorno d’estate nella piana di Campo Imperatore, il piccolo Tibet d’Abruzzo.

Tutte le cose risulteranno come nuove, ne scorgerete la bellezza in ogni anfratto esplorato dai vostri occhi.

La luce d’inizio giorno è indescrivibile, un diadema di colori.
Pare di essere avvolti da tulle che velano tutto di emozione.
Le montagne che cingono il paesaggio lunare della piana, appaiono come pacifici dinosauri incredibilmente immobili.

Il silenzio tra i meandri brulli che, alla vista, si insinuano per chilometri, fa pensare a Dio che quando opera, lo fa sommessamente senza sbandierare il suo arrivo.

Secondo una tenerissima leggenda tibetana, le montagne sarebbero frammenti di stelle cadute dal cielo e le pianure enormi, si formerebbero dai granelli immacolati della loro scia.

Un giorno, dicono i saggi, tutto potrebbe tornare da dov’è venuto.

Occorrerebbe forse fissare le pendici con i chiodi per impedire che volino via.

Guardare a questo infinito paesaggio è come entrare nel primordiale.
Ti obbliga a ripensare alla tua esistenza.
Quando si ha bisogno di sognare ad occhi aperti, basta arrivare qui in questa sorta di capolinea della geografia emozionale.

Puoi vederci grandi deserti asiatici, sconfinate praterie californiane o semplicemente un pianoro di aridi pascoli, ma credetemi, qui non si giunge per caso.
Si è chiamati per essere come davanti a sé stessi.

È come aprire una via tra cielo e terra.
Potrete immaginare di avere le stesse visioni di Francesco d’Assisi che pregava solitario nel film “Fratello Sole, sorella Luna” o “Trinità” il buon Terence Hill, cowboy dal cappello calato sulla faccia, trascinato con il suo povero giaciglio di legno dal fidato cavallo.

Campo Imperatore è un enorme set cinematografico in cui passeggiano il pastore Serafino, impersonato da Celentano, il gruppo di monaci del “Nome della rosa”, pronti a combattere il Maligno.

Pare quasi di vedere anche l’aliante in panne che sulla spianata, plana tra il gruppo di amici che festeggia con il noto amaro, il lieto fine di una brutta avventura e la piccola vettura contornata da migliaia di pecore.
Si cammina nel bel mezzo di una vera leggenda della cinematografia internazionale.
E non solo.

Secondo un amico letterato, Gabriele D’Annunzio guardando questa distesa brulla, ebbe l’ispirazione per scrivere la sceneggiatura di “Cabiria”, niente di meno che il primo kolossal del cinema muto, il cui successo nel 1914, fu avvenimento mondiale.

Bella la storia della piccola donna che durante l’ultima guerra punica nel terzo secolo a.C., venne rapita dai Fenici e venduta come schiava ai Cartaginesi.
Cabiria fu scelta dal sacerdote Kathalo, per essere sacrificata al dio Moloch, ma salvata dal romano Fulvio e dal suo liberto Maciste, poi immortalato, insieme a Sansone, come uomo più forte del mondo.

Sono alcune delle immagini fantastiche legate a questa immensa landa deserta dalla struggente bellezza dei declivi, dai dirupi su cui si stende il verde dei pascoli e l’azzurro del cielo.

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martedì 23 luglio 2013

Frattoli: l'evidenza del sacro


Dopo la scoperta di Cesacastina nel numero scorso, questa volta Concetta ci racconta storie del paese degli artisti e della devozione cristiana.

Crognaleto, quasi al confine tra Laga e Gran Sasso, vanta nel suo territorio alcuni dei più belli e antichi borghi di montagna; agglomerati di case poste su immensi falsopiano tra costoni prativi che scendono fino alla valle sottostante dove scorre il serpentone della Strada Maestra all’altezza di Aprati.

Avvolti e protetti, quasi abbracciati da una catena di monti che offre scenari indimenticabili, i paesi rappresentano la nostra memoria.

Le antiche mulattiere che attraversano gli abitati, un tempo erano la sosta obbligata dopo le fatiche dell'ascesa, per i pastori con il loro carico di greggi transumanti e per viandanti alla ricerca di improbabili commerci.
Vecchi caseggiati oggi ammodernati che, nonostante l’assalto e l’ingiuria del tempo, mantengono gran parte dell'originale architettura.

Non è improbabile in questi luoghi scoprire la bellezza dell’ingegno dell’uomo tra intrecci di scale in legno, tetti in coppi, selciati antistanti alle abitazioni e arcaiche forme di canali scolatoi che attraversano le contrade, vere e proprie opere d'arte povera ormai uniche.

Molti conoscono il piccolo paese di Frattoli perché ha dato i natali a una generazione incredibile di artisti scalpellini, la famiglia Zilli.

Il capostipite giunse dalle rive del lago di Campotosto, ebbe due figli, Emanuele che emigrò in America, e Amedeo, sorta di armadio tanto era alto e robusto che ebbe sette maschi e cinque femmine.

Questi uomini popolarono il paese di abili muratori e valenti scalpellini che realizzarono vere opere d’arte con la pietra locale, impreziosendo chiese e case.

Tipici sono i camini: ogni casa ne ha uno riccamente scolpito.

Su di essi spesso si legge il nome del capofamiglia, colui che ha commissionato l'opera e una data particolare, spesso quella di costruzione della casa.

Il paese di Frattoli è balcone privilegiato sul Gran Sasso, e su immensi castagneti secolari, in alcuni casi così fitti che al sottobosco arriva pochissima luce.
Nei dintorni ci sono percorsi costellati di vecchie carbonaie, antichi casali isolati.

Il centro del paese ha le abitazioni disposte ai lati della strada principale, in gran parte ristrutturate con un carattere moderno che ha di fatto limitato le tracce delle tipiche costruzioni cinquecentesche di montagna.
Resistono negli edifici più vetusti alcune epigrafi sugli architravi delle porte che testimoniano date e notizie su antiche famiglie locali.

A pettine, si dipanano viottoli che denotano bellezza e tranquillità dell'ambiente naturale e, in sintonia con esse, gli elementi architettonici tipici di una tradizione rurale e contadina.

Ma c’è una particolarità che vale il viaggio per arrivare fin quassù oltre alla bellezza del panorama: è che sembrano esserci più chiese che case.

In un libro dal titolo “ I legni sacri” edito in occasione di restauri, da Corrado Anelli, Alberto Melarangelo e Berardo Rabbuffo, con le note introduttive del critico d’arte Francesco Tentarelli, si riportano parole significative del Palma che si meravigliava della presenza cospicua di edifici sacri in un luogo di così modeste fatture.

Esistono tuttora la chiesa madre di S. Giovanni Battista, la chiesa di S. Antonio, quella della Madonna del Carmine e la Madonna del Soccorso che oggi quasi non esiste più.

Anni fa c’era anche il tempio di Santa Margherita poi distrutto.
In più, una serie di edicole votive poste ai margini del centro abitato, di cui non si conservano che poche tracce.

Chiese adornate da altari barocchi intarsiati e dorati, soffitto a cassettoni in legno e le “conocchie”, particolari statue impagliate con solo il viso e le mani in gesso e rivestite da importanti abiti in broccato e stoffe preziose, più economiche e più leggere da portare in processione.

Credo che non sia sbagliato definire Frattoli, “il paese della pietà cristiana”.

La chiesa madre di San Giovanni Battista ha un portico del seicento in pietra che ha qualcosa di surreale.

All’interno il visitatore trova un ambiente armonioso in stile barocco, mitigato dalla tradizione locale, in una interessante commistione di stili.

Fanno bella mostra un pulpito in legno scolpito di pregevole fattura, un confessionale che, a ragione, si può definire capolavoro di ebanisteria artistica e una credenza in legno d’abete.

Il crocifisso ligneo dell’altare denota il gusto delle popolazioni dei monti della Laga, con quelle dorature e stucchi che spesso si incontrano nei paesi di Cesacastina, Cervaro, Tottea, Cortino.





Gli articoli inseriti nella rivista sono redatti da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di tre libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat" e "Abruzzo nel cuore".

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lunedì 22 luglio 2013

Annibale e la Via Metella

Tra le due montagne del Gorzano e di Pizzo di Sevo, nei monti della Laga, si snoda il cosiddetto “valico di Annibale”, chiamato così in ricordo del probabile passaggio del famoso condottiero.

L'ipotesi storica nacque dal ritrovamento, di un miliario romano che riportava la distanza dalla capitale, ritrovato sotto la montagna di Cima Lepri.

La via antica della Salaria fu studiata nel 1830 dallo storico teramano Niccola Palma, e ricostruito analiticamente sul terreno da Alesi, Calibani e Palermi, nella Guida Escursionistica dei Monti della Laga (1990).

Quando, anni fa, m’inerpicai sul Pizzo di Sevo, incontrai un sessantenne molto ardimentoso che si divertiva ancora in montagna.
Conosceva il territorio e m’indicò dall’alto la via che, secondo lui, Annibale aveva praticato per arrivare fin qui.

Dalle Marche attraverso la Salaria, il percorso partiva dalla cima del Monte Comunitore, per il valico del Passo Chino, inerpicandosi lungo il costone che tocca la vetta della Macera e il Pizzutello, sotto Cima Lepri, in un tourbillon di incredibili ascese e discese.
 
Ciò che colpì la mia fantasia fu il “come” il condottiero avesse fatto arrampicare fin lì gli elefanti, tant’è che il mio interlocutore disse subito che molti animali e soldati perdettero la vita per il freddo e gli indicibili sacrifici.

Il maturo escursionista m’indicò il guado in cui il condottiero sarebbe passato per distendere le sue falangi armate nelle colline del Vibrata, un angusto passaggio a sud del Pizzo di Sevo.

Secondo lui, la vera “Salaria” era proprio questa: antichissima arteria, caduta in disuso perché troppo selvaggia, scavalcante la dorsale della Laga fino alla costa adriatica.

Un territorio troppo aspro, tra monasteri incastonati nelle montagne, paesini arrampicati su speroni di roccia, castelli che punteggiano le alture.
In mezzo a grandi faggete e prati, dovette sostenersi una battaglia dove si fronteggiarono uno stratega abilissimo come Annibale e il console romano Quinto Fabio Massimo, che tutti conoscono come il “temporeggiatore”.

La battaglia secondo la leggenda (o realtà?) fu il prologo di quella ben più sanguinaria di Canne dove il capo dei Cartaginesi, con forze inferiori di numero (ca. 35.000 uomini), riportò sui Romani, presentatisi alla battaglia con un esercito forte di ca. 50.000 uomini, una strepitosa vittoria.

Molti storici hanno asserito che su questa via che proseguiva per il crinale del Ceppo, toccando Castel Manfrino, antico “castrum Romano”, attraverso le selvagge gole del Salinello, dovette avventurarsi l’eroe cartaginese.

Il quale decise di attraversare le pericolose falesie al di sotto di Macchia, pur di accelerare il suo arrivo verso l’Adriatico.
Il confine tra il Piceno e il Pretuzio era anche libero da truppe nemiche date le innumerevoli leggende di mostri mitologici che si inerpicavano sui contrafforti del Foltrone e del Girella alla ricerca di malcapitati viaggiatori.
Ma, evidentemente, Annibale e, più tardi, il grande Manfredi non avevano di queste paure.


La via Metella che collega direttamente la costa abruzzese di Giulianova, attraverso
S. Omero, alla Salaria, zona amatriciana, attraversando i Monti della Laga, è oggetto di un trekking ideato dal C.A.I. di Ascoli.
A cavallo tra il teramano e la provincia reatina, il primo giorno si percorrono le Gole del Salinello da Ripe, giungendo, attraverso Macchia da Sole, all'ostello di Leofara.
Il secondo giorno si raggiunge, per Imposte e Ciarelli, la località Ceppo, dove ci si può fermare all'Ostello.
Il terzo giorno si affrontano le pendici della Laga, scavalcando la catena sul famoso Guado di Annibale, scendendo in località Capricchia di Amatrice.




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domenica 14 luglio 2013

La pietra, regina del borgo di Frattoli

“Agli occhi dell’uomo tutte le sue vie sono rette, ma chi pesa i cuori è solo il Signore”. (Proverbi 21,2).


Intorno a Crognaleto, con la sua frazione principale, Nerito, insiste una miriade di minuscoli paesi, anche se i boschi stanno mangiando i rustici abbandonati e i sentieri antichi, inghiottendo parte dei segni della vita degli uomini.

Fra questi borghi c’è Frattoli a 1115 metri sul livello del mare, che conserva, oggi, più di una chiesa antica con stupendi altari lignei e con mura, dove sono ancora visibili delle belle iscrizioni del 1400, 1500, impresse anche su stipiti e portali.

Trovo stupenda San Giovanni Battista in stile gotico con il suo inaspettato portico seicentesco delle “logge”.
Il paese dipendeva da Amatrice, poi nel XVII secolo, entrò a far parte del Ducato di Atri della potente famiglia degli Acquaviva che, da queste parti trascorrevano giorni di vacanza.

Il borgo, dal quale si gode il panorama forse più bello del comprensorio, è stato a lungo un centro artigianale conosciuto nell’intaglio del legno e nella lavorazione della pietra.

Fu proprio a Frattoli che abili artigiani realizzarono la splendida statua della Madonna delle Grazie, venerata nel santuario francescano di Teramo, dove approdò alla fine di un grande pellegrinaggio attraverso Piano Roseto, Macchia Vomano e giù verso Montorio.

La Vergine, vestita di drappi pregiati come si conviene ad una regina, pare che, in groppa ad un mulo, se la vide brutta alle porte del capoluogo. La bestia affaticata, inciampò e rotolò pesantemente sul greto del fiume Tordino, proprio sotto la strada.
Urla disperate dei fedeli che credevano di trovare la statua in mille pezzi.

Ma la Madonna delle Grazie rimase illesa e si gridò al miracolo.

L’opera, che di certo conoscete bene, è fantastica!
La bellezza del volto espressivo, il capo reclinato verso il Bambino, le mani affusolate, danno l’idea della bravura degli artigiani montanari.

Ancora oggi Serafino Zilli, l’ultimo di una famiglia di scalpellini d’epoca, fa risuonare le vecchie contrade del battito del suo martello.
Gran parte delle chiese nella Laga teramana e molte antiche abitazioni sono state abbellite dall’estro e dall’arte di questi uomini dediti all’arenaria, azzurra all’origine, beige corrosa dalle intemperie e dal trascorrere del tempo.

Inventarsi la vita in queste valli profonde non è stata cosa facile sia per l’asprezza dei luoghi, che per gli inverni lunghi.

La storia da queste parti non è altro che il racconto a volte difficile da credersi, dei sacrifici e della tenacia con cui la gente ha vinto le difficoltà di un mondo avaro di risorse.

Il lavoro artigianale dei tanti uomini come gli Zilli, si confonde ad ogni passo con la storia umana e civile dei primi insediamenti, dello sfruttamento dei boschi e dell’arte di lavorare pietra e legno servendosi dell’ingegno dei valligiani.

I fratelli, giunti fin qui da Campotosto, diedero i natali anche a Amedeo che, padre di dodici figli quasi tutti maschi, ripopolò Frattoli di muratori e scalpellini.

Alto e grande di aspetto, sorta di armadio umano, incuteva timore a prima vista, ma era di una bontà infinita.

Ha lasciato varie testimonianze della sua abilità artistica, dalla torretta della chiesa di Padula, ai finestroni di Cesacastina o gli altari a Frattoli.
La pietra, vera regina di questi luoghi si riconosce ancora oggi tra gli scempi delle costruzioni moderne.

Si capisce la squadratura dei blocchi fatta a mano per stipiti di porte e finestre, s’intuisce facilmente che queste mura non temono nessun terremoto. In molti paesi, riattati i rustici e le antiche case, le vecchie comunità si ritrovano nelle brevi stagioni estive.

Cresciuto il benessere economico, è nato un nuovo atteggiamento nei confronti dell’ambiente.

I secolari sentieri tra boschi e costoni impervi, i valichi un tempo importanti vie di comunicazione, i percorsi lungo i torrenti tra spume e cascatelle, sono tornati ad animarsi non più attraversati da boscaioli e pastori, ma da camminatori che vogliono riscoprire la cultura montana.

Sono molti i paesi che meritano attenzione magari visitandoli a piedi : Cervaro con la bella chiesa di S.Andrea, Altovia e Aiello, con il tempio cinquecentesco dei santi Silvestro e Rocco e Tottea, villaggio costruito su di un enorme masso di arenaria dove si trova un Ecomuseo e un Centro di documentazione del Parco.

(Da Il mio Ararat, Cassandra Edizioni) 
Articolo di Sergio Scacchia per "Paesaggio Teramano"

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Riprese di Vincenzo Cicconi della Pacotvideo.
Il video ha una durata di circa 21 minuti ed è stato pubblicato su cinque canali di video sharing gestiti dalla PacotVideo:
(YouTube - DailyMotion di Virgilio - Vimeo - Blip.TV).

E' stato pubblicato su tre blog anch'essi gestiti da Vincenzo Cicconi della Pacotvideo:

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Infine la pubblicazione del video è stato comunicato attraverso Twitter
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