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domenica 14 dicembre 2014

Il Santuario Regio del santo di Capestrano

Tra un sipario e l’altro di nubi compare qui e là una delle tante propaggini del Gran Sasso meno conosciuto lì dove le pietre appese a precipizi sembrano voler parlare.

Mi inerpico per la strada meno frequentata che dalla statale porta al paese.



Su di una curva presa larga, sfioro un muretto sopra il quale si trova una piccola edicola con l’immancabile Madonnina.

Mi fermo davanti al cimitero che stranamente trovo chiuso.
Dalla inferriata noto un pezzo di pietra scalpellata con delle parole incise che sbucano quasi come un fiore antico.
Mi piace entrare nei cimiteri e forse questo vi parrà strano.
Trovo che in questi luoghi ci sia pace e serenità.

Sto andando a scoprire un convento in Abruzzo che nasconde una storia millenaria, edificato in un punto in cui sorgeva un antico castello di proprietà del sovrano longobardo Desiderio e che al suo interno custodiva rari tesori, oggi disseminati in musei regionali.

Sto parlando del santuario edificato da San Giovanni da Capestrano nell'omonimo paese in provincia dell’Aquila, due chilometri dal centro del vecchio borgo.

L’uomo lo trovo, inaspettatamente, seduto su di uno sgabello proprio davanti al portone d’ingresso.
Lavora, nel silenzio del posto, con stecche di canne selezionate per fabbricare canestri di giunco. Evidentemente si procura il materiale scendendo sotto il fiume Tirino, non lontano da Capestrano.

Mi piace pensare, guardando a questa scena d’altri tempi che questo signore abbia ingaggiato una sorta di battaglia contro la plastica e i suoi contenitori, a vantaggio di utensili in vimini.

Proprio qui, secoli fa, si svolgeva uno dei più grandi mercati della regione.
Il vecchio, stimolato a parlare, rivela di essere originario di San Vincenzo a Valle Roveto e capisco da dove gli viene la perizia con cui le sue mani producono canestri.

Il paese ubicato sulla sponda destra del fiume Liri, un tempo concentrava il maggior numero di fabbricanti di questi contenitori.
Ora si trova, per varie vicissitudini in questo luogo, dopo aver combattuto nella seconda guerra mondiale a Ortona, la “Stalingrado d’Abruzzo”, punto focale nella linea maginot di battaglia che dal mare portava in montagna, attraverso la valle del Sangro.

Mi racconta con soddisfazione, dato che acquisto un suo cestino, che era stato abbandonato, dopo la morte della moglie, dal figlio emigrato in Australia, dall'altra parte del mondo a 15.000 chilometri di distanza, la terra dei canguri dove il lavoro c’è, eccome.
Il figlio non torna da anni.

Ci salutiamo non prima che il vecchio mi regali la sua stilla di saggezza:
“La gente come noi - mi dice - che non rimane attaccata alla sua terra, fa la fine delle api impazzite che non ritrovano la strada di casa”.

Torno ad occuparmi del convento di Capestrano.

Nel 1447 il santo francescano volle far costruire questo luogo per i frati dell’Osservanza sotto il titolo di San Francesco d’Assisi, ben più grande di quello presente già da anni prima nel vicino paese di Ofena.

Quando San Giovanni morì nei pressi di Belgrado, nell'allora Jugoslavia, per espressa volontà del religioso, le sue spoglie furono riportate proprio a Capestrano e custodite gelosamente nella piccola cappella adiacente il salone dove, nello stesso anno la nobildonna contessa Cobella, fece realizzare la grande biblioteca dove custodire il grande numero di libri di suo possesso.

Quello che maggiormente attrae il visitatore è il bel chiostro a due ordini di colonne, presente sul fianco sinistro della chiesa dall'inizio del seicento.
Le colonne inferiori sostengono la volta del chiostro, mentre quelle superiori formano una sorta di corridoio, costeggiato dalle antiche cellette dei frati, donando un bel colpo d’insieme alla struttura. Intorno al chiostro ci sono dipinti che raccontano la storia di San Giovanni.

Da non perdere la monumentale scalinata che porta alla biblioteca di valore immenso dove sono custoditi scritti originali del santo.

Il luogo santo di Capestrano fu insignito dell’ambito titolo di Reale Convento nel seicento, a opera di Carlo II, re di Spagna, reggente del Regno di Napoli che volle, col suo decreto, dare lustro a questo luogo che era meta di viaggiatori, pellegrini in numero prodigioso per quei tempi.

Fuori la grande struttura, periodicamente si svolgevano grandi fiere alle quali accorrevano, numerosi, mercanti in cerca di affari.
Nel settecento, il convento divenne ancora più grande con l’aggiunta di altri fabbricati annessi.
Basta osservare la grande scalinata interna di raccordo, già menzionata, che venne realizzata nel 1750 per unire le due anime del complesso.

Nel corso dei secoli la chiesa ha avuto vari rifacimenti, il cui primo fu realizzato all'atto di beatificazione di San Giovanni, nel 1515.
Interventi di una certa consistenza si sono avuti nel 1625 e nel 1669, in occasione dell’inaugurazione della cappella del santo, la cui canonizzazione risale al 1690.

Un bell'altare ligneo, all'interno della chiesa, fu sostituito da uno in marmo, a lato del quale era custodito un insigne busto argenteo raffigurante Giovanni, realizzato nel 1740.
L’ultimo restauro è datato 1925, quando la chiesa venne decorata in gran parte dall'artista abruzzese Padre Colombo Cordeschi da Lucoli, sempre nell'aquilano.

Oggi i francescani hanno quasi abbandonato per mancanza di forze, la struttura che è gestita direttamente dal comune.
Le visite si possono fare grazie a due frati che risiedono ancora all'interno.

Ora non mi resta altro che scoprire le bellezze del castello.

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Si raggiunge Capestrano attraverso la A25, uscita Popoli Bussi, proseguendo sulla statale 159, direzione L’Aquila.
Per informazioni 086295234

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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domenica 7 dicembre 2014

La piccola "La Verna d'Abruzzo"

A pochi chilometri dall’Aquila dove l’Aterno disegna il suo corso più frastagliato, il piccolo centro montano di Fossa regalava attimi di spiritualità a chi desiderava visitare una sorta di “terra delle Beatitudini”, dato l’ingente numero di santi e beati cui la zona ha dato i natali nel corso dei secoli.


Ho usato il verbo al passato remoto non a caso e non per sbaglio.
Dopo il terremoto del 2009 Fossa è un paese fantasma.
Questo borgo piccolissimo sotto il monte Circolo, ai piedi del complesso montano dell’Ocre, con mirabili resti di storia millenaria fra palazzi medioevali e chiese stupende, oggi è abitato da cani e gatti randagi.

Non è più possibile scoprire un gioiello d’arte come Santa Maria ad Criptas, tempio mirabile del XII secolo, vera Cappella degli Scrovegni in Abruzzo con i suoi cicli pittorici ineguagliabili.

La piccola chiesa che si affaccia sulla valle a pochi metri dal centro storico, è chiusa, imbracata nelle mura e inaccessibile perché pericolante.

È rimasto ben poco del possente castello dei Conti d’Ocre, prodigio di architettura difensiva del 1300 e la grande necropoli preromanica che valeva l’appellativo di “Stonenhenge d’abruzzo”.
Tutto chiuso.

Non è più facile scorgere, nel suo contesto ambientale in cui madre natura fu prodiga, lo spettacolare convento francescano arroccato su di un masso roccioso gigantesco.
Un luogo dello spirito da tutti definito “La Verna d’Abruzzo”, in omaggio a uno dei posti più importanti del francescanesimo dove il santo di Assisi ebbe le stimmate.

La strada per salire al convento è ormai interdetta da quella maledetta notte di aprile 2009, per possibili crolli dal fianco della montagna.

Se v’inerpicaste lungo i tornanti sopra il paese, potreste avere l’impressione che la natura abbia lavorato, secoli prima, per poggiare Sant’Angelo in Ocre sul costone a nido d’aquila, sentinella del precipite e angusto vallone brullo e inospitale.

Si scopriva quasi d’improvviso dall'altopiano di Navelli da dove prendevi a salire alle pendici del monte Circolo per raggiungere un tempo che si era fermato nel tempo!

Oggi per fotografarlo sono dovuto salire a piedi la strada che dal piccolo borgo di San Panfilo d’Ocre porta su di una collina adiacente alla montagna.
Un tempo, prima del maledetto sisma, arrivando al convento si veniva rapiti da un senso di pace nel cuore.
Circondati dal cupo verde dei boschi, gli affanni, le ansie, sembravano fermarsi sotto la conca. Si respirava aria mistica.

Il convento sembrava una “stupa”, quei piccoli santuari indiani che contengono reliquie di qualche buddista santo.
I resti santi del Beato Timoteo di Monticchio e di Cesidio da Fossa, custoditi nella piccola chiesa del convento, erano presenze inquietanti ma, nello stesso tempo, consolanti.

Un luogo sacro stupendo, quindi, antica dimora di contemplativi, con affreschi lungo i muri abbandonati al tempo e una misteriosissima parete a precipizio.
Tutto intorno, massi, verde e caverne dove si dice siano vissuti diversi eremiti.

Oggi tutto questo non esiste più!
Il tetto del convento è crollato, le erbacce colonizzano gli antichi e sacri muri.
Il paese sotto, dove le donne usavano ancora portare otri di terracotta o di rame per prendere l’acqua buona di montagna dalla fonte centrale, è un cumulo di case vuote, monconi di pietre e mura imbracate.

Dentro queste mura, dopo aver vissuto l’infanzia a Fossa, si formò alla santità il Beato, oggi santo, Cesidio Giacomantonio, martire dell’Eucarestia che venne ucciso in Cina durante il periodo della Rivoluzione dei Boxer per non aver voluto rinnegare il nostro Dio.
Ricordo che all'ingresso il visitatore era accolto da un artistico Tau di legno.

L’ultima lettera dell’alfabeto ebraico era il segno più caro per San Francesco d’Assisi, il suo sigillo, segno rivelatore di una convinzione spirituale profonda, che solo nella croce di Cristo può esserci salvezza per l’uomo.
Nel convento un frate dalla barba fluente raccontava a chi arrivava, la tradizione che fa risalire la fondazione del monastero ai potenti Conti D’Ocre.

Per giungere a Fossa e San Panfilo d'Ocre: autostrada Teramo Roma, uscita L’Aquila Est direzione L’Aquila S.S. 5 bis per Avezzano

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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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sabato 29 novembre 2014

La strada della salvezza è tutta in salita

Davanti ai ventotto gradini in legno di quercia, sono tanti i fedeli che nelle ricorrenze cristiane più importanti chiedono, salendo faticosamente in ginocchio, il perdono dei peccati per raggiungere il Paradiso.

Accade ogni anno a Roma come a Gerusalemme.
Accade anche a Campli.

In questo borgo che al visitatore sembra solo un tranquillo paesino di campagna ai piedi dei monti Gemelli, c’è una delle poche Scale Sante al mondo, dove ottenere l’indulgenza plenaria.
In realtà l’antica “Campulum” è grande nella sua storia millenaria iniziata in epoca preromana, tanto da essere da più di tremila anni, crocevia di popoli e cultura.

Basti pensare ai meravigliosi reperti della necropoli italica di Campovalano, risalenti al primo millennio avanti Cristo, ai grandi pittori che qui hanno lasciato opere indimenticabili come Giacomo da Campli, Cola D’Amatrice, Giovanbattista Boncori e tanti altri, senza dimenticare le architetture dei palazzi, le cui mura narrano antichi splendori e celano capolavori del genio umano.

Sono architetture immortali, come la cattedrale di Santa Maria in Platea, la Porta Angioina, San Paolo, il Convento francescano di San Bernardino, il Palazzo Farnese del ‘500, il convento di Sant’Onofrio, la medioevale casa del farmacista e del dottore, il Museo archeologico e mille altri tesori.

Fu Papa Clemente XIV che attribuì il privilegio della Scala Santa alla città della famiglia dei Farnesi nel lontano 21 gennaio 1772, grazie ad un paziente lavoro diplomatico di un avvocato, Gian Palma Palma, priore della Confraternita delle Sante Stimmate di S. Francesco, alla quale fu attribuito il ruolo di custode del luogo santo.

L’avvocato cercava di accrescere la fama della sua città per far rifiorire gli affari e allontanare il pericolo di un decadimento ormai inevitabile.
I gradini che rendono la strada per la salvezza dell’anima in salita, sono un rito religioso di grande importanza, legato a una tradizione biblica, priva di fondamento storico.

Fu Gesù, scendendo e salendo dal pretorio di Pilato la grande scalinata di marmo, a consacrare le pietre col sangue santo che colava dalle ferite inferte dai romani.
La tradizione vuole che, anni dopo, la madre di Costantino, Sant’Elena colta da immensa pietà durante un pellegrinaggio in Terra Santa, s’impossessò del marmo sacro, portandolo a Roma e collocandolo in forma di scala, nel palazzo Lateranense.

Quella di Campli è una delle Scale Sante in migliore conservazione esistenti al mondo, ma è sicuramente la meno nota e la meno frequentata.

Eppure, accostandosi con devozione a questo gioiello di fede ci si sente penetrare dall’atmosfera ricca di suggestioni e attese.

Il soffio del vento che giunge dalla piccola vallata circostante, inculca il desiderio di riconciliazione con Dio.
La luce riflessa che gioca sui toni del bianco e del grigio, sembra soffocare i colori brillanti del verde e del torrente Siccagno.
Sul piccolo universo fermo di questo borgo d’arte, cala il silenzio dell’anima che attende il perdono.
I segni della civiltà di colpo arrivano attutiti, persi nelle strette vie del paese.
Nel salire in ginocchio e a capo chino pregando e chiedendo perdono dei misfatti compiuti, una moltitudine di piccoli teneri angeli dalle tele dei lati, accompagnano il cammino penitente delle ginocchia.

I sei dipinti, tre a destra e tre a sinistra che ornano questo piccolo capolavoro di arte religiosa, ci ricordano quanto ha sofferto il Cristo per salvare tutti noi che spesso rifiutiamo il suo estremo dono.
E’ il luogo del perdono, dove le mute pietre sanno comunque raccontare storie e sentimenti, entrando nella parte più intima del peccatore.

Un itinerario dello spirito, in un tempio dalla struttura semplice.

L’ultimo gradino porta davanti al “Sancta Sanctorum”.
Si prega in silenzio al cospetto di un dipinto che raffigura la deposizione del Nazareno, simbolo meraviglioso del dolore che Gesù ha voluto subire per la salvezza di ognuno di noi.
Il piccolo altare dietro la grata sembra essere lì per far poggiare il peso delle miserie, degli squallori umani.
Finalmente si è liberi dai propri peccati.
La seconda scalinata si scende in piedi tra gioiose tele che ricordano la Resurrezione del Cristo.

Una cultura millenaria raccontata da tanti storici.

Serafino Razzi, domenicano, religioso che ben incarnava l’eterna condizione dell’uomo orante “in cammino” verso Dio, nel 1575 intraprese un viaggio verso l’Abruzzo, toccando anche il borgo di Campli.
Il confine fra la “provincia Pretuziana” e la “Marca Fermana”, fra lo stato e il Regno Pontificio di Civitella del Tronto, dovette lasciare in lui un segno se è vero che, profondamente colpito dalla nobiltà che permeava quel piccolo e apparentemente insignificante paesino, esclamò in una sua lettera: “ o Campulum Pretuziano…
capolavoro a cielo aperto!”.

Anni prima, lo studioso Pacifico Massimi, vissuto nel XV secolo, scrisse in un testo latino che … ”sinché esisteranno le ripe di Campli, Castelnuovo e Nocella, io ne sarò sempre amante, mai sarò immemore di ciò che ho ricevuto né mi peserebbe ricambiarlo con il dono di mille vite”.


Il cieco di Adria, Luigi Grotto, pose Campli sopra le rovine della favolosa Castro.

Lo storico Orlando non fu dello stesso parere e sostenne che i fondatori del borgo furono dei fuoriusciti di Campiglio, sulla collina sopra la valle, che gettarono le fondamenta di un quartiere che divenne in seguito “ il Ricetto” forse per la presenza di ebrei.
Giovan Battista Pacichelli invece asserì che il nome Campli derivava da intra – campi e affermò che il borgo fu fondato dai proprietari di un castello vicino.
Origini discusse, tra cui l’ipotesi di un tenimento umbro che parla di un “municipium inter campi” da cui il nome della città.

Quel che è certo che Campli trasuda, in ogni sua pietra, cultura millenaria.
Lo gridano incessantemente i tanti ritrovamenti di ogni epoca e civiltà.
Il territorio camplese ha avuto fin dalla preistoria insediamenti propri, come ci testimoniano i resti risalenti all’età del bronzo, di un villaggio di allevatori e agricoltori del XIV, XIII secolo a.C. e i ritrovamenti nella Necropoli di Campovalano con tombe risalenti al II secolo a.C. I resti raccontano anche di una civiltà romanica evoluta.

Nella zona al margine nord ovest della necropoli, sotto l’altare della chiesa romanica di San Pietro in Campovalano, fu ritrovato un frammento di epigrafe, in lettere capitali con dedica a Giulio Cesare, resti con tutta probabilità di un piedistallo di statua innalzata per disposizione dell’ex “Lex Rufrena” del 44 a.C. in onore a Cesare divinizzato.

Nella stessa area esisteva una necropoli romana, da cui provengono frammenti del ”sarcofago di Aurelio Andronico”, ricco commerciante di marmi nel IV secolo avanti Cristo.
Nella frazione di Battaglia ai piedi delle due montagne gemelle, fu riportato alla luce un ripostiglio contenente una quarantina di monete d’argento, molto probabilmente tesaurizzate, databili dal 323 al II secolo a.C..

In epoca romana i vicoli di Campli furono attraversati da uomini illustri; la storia ricorda la presenza di Lenate, dottissimo schiavo di Pompeo e Tazio Lucio Rufo che, pur essendo di umili natali, pervenne ai più alti gradi della milizia romana, diventando il pupillo di Augusto.

Nessuna mano scellerata è riuscita, nei secoli, a strappare l’infinito fascino che Campli sa regalare.

È possibile raggiungere Campli tramite l'autostrada Adriatica (A14) uscendo dal casello Val Vibrata o dall'Autostrada (A24), uscendo a San Nicolò a Tordino. Teramo è a 9 chilometri!

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sabato 15 novembre 2014

Il capolavoro di Nicodemo a Cugnoli!

La primavera sulle colline della campagna pescarese è qualcosa di incantevole.

Lontano da grigliate, assembramenti e motori, tutto si immerge in un silenzio rotto qui e là dallo scampanio di sparuti greggi che puntellano le piccole alture verdi e il fondovalle di coltivi, uliveti e piccoli casali isolati.

Sono molti i borghi, i minuscoli abitati, ognuno dei quali ha qualcosa da raccontare.
Moscufo, Loreto Aprutino, Brittoli, Nocciano, Pietranico e Alanno dove ci sono i migliori esempi di barocco abruzzese, sono tutti centri seppur piccoli, in grado di sorprendere il visitatore con i loro tesori.

Su di un colle ameno, affacciato sulla piccola e assolata valle detta del Cigno, c’è anche lo sconosciuto paese fortificato di Cugnoli.

Certo, dell’antica cinta di mura e degli ulteriori muraglioni difensivi su cui poggiavano le antiche case è rimasto ben poco, ma l’atmosfera del tempo che fu è ancora palpabile.

Saranno forse i palazzotti gentilizi del Quattrocento e del Cinquecento, scampati miracolosamente alla distruzione a dare ancora stimoli storici al visitatore.

Al mio arrivo trovo seduto ai tavolini fuori il bar un signore.
Ha l’aria svagata tipo Mr. Bean.
All’interno del locale un anziano dormicchia e un altro è intento a leggere il quotidiano.
L’uomo rimane interdetto quando chiedo dove è possibile ammirare il meraviglioso ambone.
Quest’opera è l’ultima indimenticabile creazione dello scultore Nicodemo che nei primi anni del 1100 imperversò con la sua arte in tutto Abruzzo, creando i capolavori forse più conosciuti custoditi a Santa Maria al Lago di Moscufo e Santa Maria in Valle Porclaneta presso Rosciolo.

Il manufatto è un pregevole pezzo della scultura abruzzese nel periodo romanico.

Fu quello un periodo che generò opere di grande pregio e diverse botteghe d’arte regalarono tesori all’Abruzzo.

Fra questi da non dimenticare il fantastico ciborio di
San Clemente al Vomano.

Mi accorgo che il mio interlocutore non ha assolutamente idea di cosa sia un ambone.
Per fortuna sa darmi l’indicazione per la chiesa parrocchiale anche se aggiunge “ sa, io la frequento poco …”.
La viuzza antica che mi porta a Santo Stefano Martire è caratteristica, tra piccoli balconi con panni stesi e fiori sui davanzali.
Raggiungo la chiesa che è del XIII secolo, posta in una minuscola piazza e subito ho una delusione.
La facciata anonima è intonacata alla ben meglio con una finestra e un portale non certo indimenticabili.
Forse è interessante lo stemma cinquecentesco e la piccola lastra in pietra decorata da un bassorilievo raffigurante il toro alato, simbolo dell’evangelista Luca che è sicuramente posteriore di poco all'edificazione del tempio.
Anche l’interno, in stile barocco impallidisce davanti ai vicini oratori di Pietranico e Alanno.

Le decorazioni a stucco sono pesanti e modeste.
Ma l’ambone, posto in prossimità del presbiterio, sulla sinistra, riempie di luce tutto l’ambiente.
Davvero l’arte è l’ombra di Dio sulla terra, penso.
Per contemplare la bellezza ci vuole coraggio e amore.
È come vertigine, acqua fredda di montagna che purifica l’incontro con l’Onnipotente.

L’opera risulta completamente estranea a tutto l’ambiente.
Direi forse che la chiesa risulta estranea all’opera che starebbe bene in solitudine, messa per conto proprio a disposizione di chi voglia ammirarla.

Il parroco che incontro dopo qualche minuto conferma la mia impressione.
L’opera era stata concepita per un’altra chiesa oggi scomparsa, poi fu portata in questo tempio, nato a posteriori.
Molti i temi trattati nelle sculture lavorate per arricchire l’ambone: le imprese del re Davide, la bellezza di Dio attraverso i fiori, i misteriosi intrecci arborei o le strane forme geometriche che imprigionano l’uomo nel peccato o le fantastiche creature mezzo uomo e mezzo animale.

Tutti gli altri piccoli capolavori custoditi nella chiesa passano in secondo piano davanti a questo ambone superbo ma sono comunque da ammirare come la scultura in legno dell’Annunciazione, la piccola statua in terracotta del Madonna con Bimbo, XV secolo o le pitture non eccelse ma comunque di buona fattura, realizzate da artisti di una bottega che operava nella zona all’inizio del Settecento.

Sono contento, è valsa la pena salire fin quassù per ammirare bei panorami sulla vicina Majella e questo capolavoro medievale che riempie occhi e anima.
Decido di terminare la giornata dedicandomi alla natura,
salendo fino al valico di Forca di Penne.

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Come arrivare a Cugnoli, distante circa 30 chilometri da Pescara:
A 24 fino a Pescara, poi A25, Pescara Roma, uscita Alanno/Scafa; proseguire per 18 km in direzione Alanno/Pietranico/Cugnoli

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sabato 4 ottobre 2014

Riscopriamo la fantastica cripta, gioiello camplese di sacralità cristiana.

Tra gli antichi gioielli di sacralità cristiana presenti nella provincia di Teramo, merita attenzione la cripta della bella cattedrale di Santa Maria in Platea, nel borgo d’arte di Campli, pochi chilometri dal capoluogo teramano.

Il paese ha molte bellezze da offrire al visitatore, fra cui la singolare Scala Santa e i suoi ventotto gradini in legno da salire in ginocchio e il cinquecentesco Palazzo farnese ma credo che questa cripta e la cattedrale, da sole, meritino il viaggio.

Con la parte sotterranea della chiesa, parliamo di un ambiente bellissimo di una grande armonia architettonica e di una spiritualità fuori del comune.

La cripta sotterranea altro non era che l’antica chiesa che nel Duecento fu affiancata e poi sovrastata da un altro tempio a unica navata che fu restaurato e ampliato tra il Quattrocento e la metà del Cinquecento.


Fu ancora più avanti negli anni che venne anche realizzato il presbiterio e l’abside attuale della cattedrale, oggi ubicata proprio sopra la cripta.

Dal momento in cui la chiesa si ampliò i camplesi, molto devoti all’Immacolata Concezione, dedicarono questo spazio sotterraneo al culto di Maria.

Nella piccola cappella attigua c’è proprio un dipinto che raffigura il popolo camplese, in adorazione, in ginocchio davanti alla Vergine portata in processione.
La scena accade anche oggi, ogni 8 dicembre festa dell’Immacolata, quando la statua è portata in ogni parte del paese, alle prime luci dell’alba.

I lavori di restauro che furono compiuti nei primi anni del duemila con estrema sapienza, hanno ridonato la bellezza antica agli archi e hanno ricreato l’ambiente originale che consta di cinque minuscole navate suddivise in quindici piccole campate.

Il recupero ha fatto riaffiorare dal passato, anche se in parte, i fantastici affreschi di scuola giottesca, realizzati nei primi anni del Trecento.

L’amico, esperto d’arte e di storia, Nicolino Farina di Campli, m’informò che i dipinti sarebbero attribuibili quasi certamente, a Nicola di Valle Castellana, straordinario artista dei monti della Laga, che pare fosse allievo del grande senese Lorenzetti.

Queste pitture sono interessanti, una in particolare raffigura il Cristo che risorge con la particolarità, rarissima, di avere ancora entrambi i piedi nella bara a significare il concreto passaggio per l’uomo, tra la morte del peccato e la vita della Redenzione.


Come arrivare a Campli

Da Nord e da Sud
Dall'autostrada Adriatica A14 (da nord: direzione Ancona; da sud: direzione Pescara), uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Nicolò, svoltare sulla SP 17, attraversare Villa Falchini, Pagannoni Basso, svoltare poi sulla SP 262 per Campli.
Da Pescara
Percorrere la SS 16 in direzione di Chieti, continuare in direzione dell'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Nicolò, svoltare sulla SP 17, attraversare Villa Falchini, Pagannoni Basso, prendere poi la SP 262 per Campli.
Da Chieti
Percorrere la SS 81, imboccare l'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Nicolò, svoltare sulla SP 17, attraversare Villa Falchini, Pagannoni Basso, prendere poi la SP 262 per Campli.


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sabato 27 settembre 2014

La solitudine della santa anacoreta!

L’eremitaggio di Santa Colomba è situato a mezza costa di un erta ripidissima del monte Infornace, nel complesso del Gran Sasso d’Italia, a cavallo di uno stretto schienale di montagna dal nome minaccioso, la “costa del Malepasso”.

E’ questo una sorta di sperone roccioso che divide il monte Brancastello dal Prena, la cosiddetta “mamma dell’acquedetto del Ruzzo da dove nasce l’acqua che arriva nelle nostre case.

Siamo a pochi tornanti dalla bella cittadina di Isola e qualche chilometro dal paese di Castelli con le sue famose ceramiche.

In questo luogo impervio si accede dopo una passeggiata gradevole di circa un ora per un sentiero facile nell’orientamento che si dipana in un bosco ceduo.
Secondo la tradizione, proprio in questo luogo nel XII secolo, la giovane Colomba, figlia dei Conti di Pagliara e sorella del futuro vescovo di Teramo Berardo, abbandonati gli agi della ricca famiglia si ritirò in preghiera e penitenza.

Fu lì che la morte la colse, amorevolmente assistita dal fratello.
Nel 1595 le sue spoglie furono traslate nella chiesa di Santa Lucia ma solo molti anni dopo, nel 1955 la statua raffigurante Santa Colomba, e le sacre spoglie, vennero trasferite nell'attuale cappella di Pretara.

Alcuni studiosi mettono comunque in dubbio l’appartenenza della santa alla nobile stirpe dei Pagliara e la sua fratellanza con San Berardo.
La giovane sarebbe stata sorella di Sant’Egidio e San Nicola.

Tutti però concordano nel definirla bella, simbolo di purezza e candore verginale, ritratta il più delle volte col fiore simbolo di pulizia interiore, il giglio.

Anche il nome Colomba sta a ricordare questo volatile candido, immagine dell’innocenza.


Forse fu proprio per questo desiderio di rimanere pura, che la giovane volle staccarsi prepotentemente dal mondo, per elevare la sua anima nella perfetta solitudine di questo magnifico posto.
Parliamo di un luogo dalla gran fama di mistero.
Sono numerose, infatti, le leggende legate all’ eremo che il primo di settembre si anima per una processione di pellegrini dediti al culto della santa bella e pura.

I vecchi della zona raccontano di tesori nascosti, superiori come ricchezza a quelli che sarebbero celati tra i Monti Gemelli e il Castel Manfrino.

Qualcuno ancora in vita, ad Isola, sembra abbia provato ad estrarre un forziere internato nella zona ad oriente della chiesetta.


Ma c’è chi giura che il malcapitato, quando fu sul punto di trovare qualcosa, d’improvviso sentì il badile cozzare contro resti di ossa umane e cranio compreso. Incredibilmente tali ossa, secondo il racconto, avrebbero cominciato a sbattere l’uno contro l’altra con gran frastuono, suscitando nello sventurato una tale orrida paura da fargli diventare di colpo tutti i capelli bianchi nonostante i suoi 35 anni. Inutile dire che qualche secondo dopo le sue gambe quasi toccavano la testa nella fuga.

Dentro l’eremo c’è un altare anonimo e lo stanzone è disadorno.
Eppure per chi conosce le storie incredibili di questo posto l’altare, in realtà, avrebbe un grande valore.

Il manufatto antico sarebbe miracoloso!
Sarebbe in grado di guarire coloro che v’introducono il capo attraverso un foro esterno.
Nel mettere il capo dentro questo buco, sarebbe possibile guarire da cefalgie, nevralgie, emicranie a grappoli e quant’altro.

Il noto scrittore Giovanni Pansa racconta tutto ciò nel suo stupendo “ Miti, leggende e superstizioni d’Abruzzo”.

Lungo la stradina in mezzo alla foresta che accompagna la lunga e faticosa ascesa al monte Prena e porta nel luogo dove la bella Colomba sembra passasse ore ed ore in contemplazione della natura e dei doni di Dio, alcuni giurano che sia possibile anche notare, distintamente, le impronte della mano e del pettine lasciate dalla giovane quando usava sciogliere i suoi lunghi e folti capelli.

Tornando all’altare miracoloso, è frequente in Abruzzo, dare a luoghi santi degli incredibili poteri taumaturgici.

Ogni anfratto, parete, pietra o nuda terra, viene utilizzato per strofinarsi col corpo e aspettare prodigiose guarigioni da ogni tipo di male.

E’ il caso a esempio, di San Domenico di Villalago vicino Barrea o di San Michele Arcangelo a Balsorano.

Secondo studiosi, tali pratiche divinatorie riporterebbero al concetto che la terra crea, distrugge, infine ricrea in un'altra dimensione.

L’eremo si mostra al visitatore provato dalla salita, già in lontananza su di una rupe a gradoni.

E’ proprio a lato di quella rupe che si trova un singolare affresco naturale a forma di pettine che si dice sia stato impresso proprio dal pettine lasciato per tanti anni incustodito dalla santa anacoreta, che lo usava per ravvivare la folta capigliatura.

Dietro la minuscola chiesetta di montagna, seminascosto dagli abeti, un masso di inaudite proporzioni porterebbe impressa la mano della fanciulla che ivi si poggiava per farsi forza nella salita all’erta china.

Naturalmente chi ha buone gambe si può cimentare nel continuare a salire verso il Cimone di Santa Colomba, raggiungibile risalendo il crinale alle spalle dell'eremo.
Siamo nel cuore della catena principale del Gran Sasso orientale.

 Ringrazio per i contributo fotografici i cari amici Massimiliano Fiorito e Alessandro de Ruvo!


Come arrivare ad Isola del Gran Sasso d'Italia:

Da Nord e da Sud
Dall'autostrada Adriatica A14 (da nord: direzione Ancona; da sud: direzione Pescara), uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Gabriele/Colledara, prendere la SS 491 e proseguire in direzione Isola del Gran Sasso.
Da Roma
Prendere l'autostrada A 24 verso Teramo, uscire a San Gabriele/Colledara, seguire la direzione Montorio al Vomano, proseguire in direzione Isola del Gran Sasso percorrendo la SS 491.
Da Pescara
Percorrere la SS 16 in direzione di Chieti, continuare sull'autostrada A 14, uscire a Teramo/Giulianova/Mosciano Sant' Angelo, prendere la SS 80 Strada Statale del Gran Sasso in direzione Teramo, continuare sull'autostrada A 24, uscire a San Gabriele/Colledara, prendere la SS 491 e proseguire in direzione Isola del Gran Sasso.


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domenica 21 settembre 2014

Il Duomo di Teramo, baluardo di fede e arte!

Non tutti i teramani colgono pienamente le bellezze dell’assetto urbano che da Piazza Martiri della Libertà, a Teramo si estende intorno al Duomo.
La cattedrale che è in posizione baricentrica, rappresenta il fulcro delle principali vie cittadine.
Nel periodo imperiale di Roma la città aveva proprio qui il suo perimetro, tra piazza Martiri, via Torre Bruciata, la via del Cardo, oggi tra il Melatino e la chiesa di S. Antonio, del Baluardo e Noè Lucidi.

Il tragitto oggi che da Porta Reale attraversa il corso De Michetti e quello intitolato a Vincenzo Cerulli, grandi personaggi teramani, un tempo il Decumano da dove partiva l’arteria principale per Castrum Novum, l’attuale Giulianova, propone oggi al turista la vista della maestosità di questa cattedrale che ha il suo pezzo forte proprio nella facciata principale.

Costruito a “cento passi” dall’antica cattedrale, oggi S. Anna, sulle rovine di un tempio pagano dedicato a Giunone e Apollo, il Duomo vide la luce nel 1158.
Una struttura unica doveva legare il tempio con il grande complesso del teatro e anfiteatro, incorporati in quelle mura del cortile dove anni fa c’era un quotato Istituto di Scienze Religiose.

La prima costruzione fu realizzata utilizzando materiali delle abitazioni distrutte dai Normanni e pietre del teatro romano.

Era il 1078, i Normanni ci invasero alla caduta del Sacro Romano Impero e i barbari saccheggiavano ovunque.
Era proprio il tempo del vescovo Berardo da Pagliara che poi divenne il patrono della città.

Qualche anno dopo, nel 1152, Roberto di Loretello rase al suolo quasi tutto, compresa la chiesa madre di allora, Santa Maria Aprutiensis, attuale S.Anna. La città fu ricostruita a opera del vescovo Guido II.

Poi, correva il secolo XIV, periodo delle Signorie, il vescovo Nicolò degli Arcioni fece realizzare la facciata che, nel corso degli anni, si arricchì di una preziosa merlatura guelfa, simbolo inequivocabilmente del potere vescovile.

 Nel 1493 l’allora vescovo chiamò il Maestro Antonio da Lodi per il completamento del campanile che venne impreziosito da maioliche castellane.
Poco tempo dopo fu completata la grande campana aprutina fusa con maestria da Attone di Ruggero.

Dovremmo forse guardare con occhi diversi il nostro Duomo, soprattutto amare la nostra storia come identità e risorsa della città.
Far cadere lo sguardo ad esempio, sul portale, opera realizzata nel 1332 dall’insigne maestro romano Deodato di Cosma, appartenente al filone gotico abruzzese già presente ad Atri, Sulmona e Lanciano.

Se ci soffermassimo sui particolari scopriremmo gli stemmi della diocesi teramana, del vescovo Niccolò degli Arcioni, le sculture di Nicola da Guardiagrele, raffiguranti l’arcangelo Gabriele, l’Annunziata, il Redentore e il patrono San Berardo.

Spostandoci sul lato meridionale guarderemmo con attenzione la sporgenza semicircolare dell’abside della cappella dedicata al patrono, sotto la quale si trovano cippi e resti romani.

Tornando alla facciata principale e ammirando la scalinata, gli occhi non potrebbero non vedere gli austeri leoni che sorreggono le colonne sormontate da statue.
Il leone può essere, a ben ragione, ritenuto l’animale simbolo della città.

Sculture leonine si trovano a decorazione della fontana nella piazza dove si trova anche il palazzo comunale, a guardia del porticato dei Melatino, oggi sede Aci e del palazzo Savini.
Rappresentano la fierezza del popolo aprutino.

Vari vescovi si sono adoperati nei secoli per rendere monumentale il Duomo.
Il primo a essere ricordato non può non essere Guido II che fece erigere il monumento, poi Niccolò degli Arcioni che lo ampliò.
Le colonne interne, tutte diverse e il presbiterio notevolmente più in alto rispetto alla chiesa, denotano proprio le due strutture come erano secoli prima.

All’interno, ancora leoni, immancabili a guardia dell’ambone monumentale e della pregiata cattedra lignea, il cui trono episcopale con baldacchino sormontato dallo stemma dei vescovi aprutini conclude il perimetro della chiesa.

Si resta colpiti dal Paliotto argenteo custodito in teca sotto l’altare maggiore, opera del grande orafo Nicola da Guardiagrele.
Consta di 35 pannelli contenenti scene sacre della vita del Cristo.

A sinistra, imperdibile, la cappella di San Berardo con il Polittico, tavole lignee del ‘300 realizzate da Jacobello del Fiore, raffiguranti l’incoronazione della Vergine Maria.

Un altare barocco di pregevole fattura, custodisce l’urna con le reliquie del santo patrono.

Anche la sacrestia, che in tante chiese non ha valenza artistica, nel Duomo di Teramo riveste enorme importanza grazie anche a opere immortali di un polacco, pittore del ‘600 teramano, Sebastiano Majewski.

Correva l’anno 1622 o giù di lì quando il giovane polacco, che nel frattempo aveva firmato un ciclo pittorico con storie della vita della Madonna nel convento di Santa Maria delle Grazie a Ortona, venne chiamato a Teramo per il 500 esimo della morte di San Berardo, allorquando fu eretto un nuovo altare in onore del santo e a lui commissionarono sei tele che oggi lasciano stupefatti, chi in visita alla Basilica, si soffermi davanti all’altare in noce intagliato, in cui si ritraggono momenti della vita del patrono di Teramo.

In tarda età il grande pittore lasciò come regalo finale della sua incommensurabile arte, affreschi che ancora oggi ornano lo splendido chiostro dell’antico convento di Santa Maria di Propezzano nell’agro di Morro d’Oro, vero caposaldo del romanico aprutino, dove spicca per bellezza la scena della Visitazione dell’Angelo annunciante alla Vergine.

Uscendo colpisce di nuovo la vista il grande campanile di 50 metri con la sua parte terminale sormontata da un prisma ottagonale, realizzato da Antonio da Lodi, lo stesso che bissò il momento artistico, nella imperdibile Cattedrale di Atri


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sabato 9 agosto 2014

Santa Maria Apparens di Alvi

Alvi , piccola frazione nel comprensorio di Crognaleto, è quanto di più romantico si possa esprimere nei selvaggi monti della Laga.
“Qui il silenzio è utile per coloro i quali vogliono avviarsi alla perfezione”. Lo scriveva Frate Giovanni Pinazza, abitante eremita che vi soggiornò per un anno di vita ascetica.

Il borgo risale al 1300 quando fu costruita la piccola ma bella chiesa di Santa Maria Apparens, con i suoi importanti affreschi, ma la frequentazione di questo luogo esisteva sin dagli antichi Romani.
Pare che sulle pendici meridionali del Monte di Mezzo, in località “il Coppo”, furono localizzati anni fa, i resti di antichi stazzi di quell’epoca. Non c’è da stupirsi.

Questo bel paesino è praticamente da sempre, significativamente collocato lungo un itinerario pastorale che da Crognaleto conduceva a Campotosto.
Il piccolo campanile della chiesa, che fu ideata e costruita definitivamente grazie ai frati dell’Ordine di San Bernardino, si disegna fra un breve pendio e il cielo fuori dal paese.

La leggenda, che vive intorno al luogo santo, è da raccontare.
Si narra che un soldato francese, proveniente da famiglia facoltosa, ferito e abbandonato tra i monti, ormai in fin di vita, invocò l’aiuto della Vergine.
Maria apparve tra le nuvole bianche e salvò il moribondo.
Il giovane fece erigere qui, così lontano da casa e in terra straniera, un tempio alla Madonna che appare.
I vecchi raccontano che all’inizio dell’800, il piccolo luogo sacro fosse frequentato dai tanti briganti che trovavano in queste montagne il loro rifugio.
I malviventi pregavano la Madonna a mani giunte in un’implorazione che raccoglieva le loro umane debolezze, le contraddizioni e le atrocità da riscattare.

Nel 1703 un terremoto devastò questi luoghi e, nei primi anni del ‘900, una grande frana della debole pietra arenaria che circonda il paese, distrusse gran parte del piccolo abitato che fu ricostruito, niente di meno che da un giovane Benito Mussolini.
È una storia raccontatami da un vecchio pallido e zoppicante, incontrato in uno dei miei raid precedenti in paese.

Dal centro di Alvi, c’è un bel percorso sterrato del Sentiero Italia che, utilizzando antichi itinerari provenienti da Campotosto, attraverso la zona del Passo Cattivo, porta a conoscere una montagna poco ambita ma dalla vista bellissima: il Monte di Mezzo, spartiacque tra Laga e Gran Sasso ,dove la vista spazia fino ai Monti Reatini.
Dalla sua vetta si può scendere a Frattoli o tornare ad Alvi.
È un percorso che consiglio vivamente.

Sono fantastici questi borghi dove intrichi selvaggi di rovi rimpiazzano parte dell’abitato e dove alcuni alberi sembrano soffocare a causa di lunghi rami di rampicanti fuori controllo.
Sono paesi fatti di gente solida come le rocce sporgenti che ne determinano il paesaggio.

Mi fanno ripensare a un autore che adoro.
Non so se avete mai letto qualcosa di Mario Rigoni Stern.
La sua “montagna silenziosa e triste” è fatta di contrade piene di case vuote, privi di simpatici merletti, bimbi festosi.
I suoi prati sono inselvatichiti e abbandonati. Paesi che in capo a dieci, venti anni sono passati da cento abitanti a dieci o forse meno.
Quest’abbandono si legge in Dolomiti come in Appennino.
Un tempo mi disse un vecchio abitante di Valle Vaccaro, qui c’era anche bestiame a valle: diverse mucche da latte, qualche arzillo torello per coprire le vacche vogliose con straordinari erotici, poi diverse decine di capre, pecore, maiali, di tutto.

Oggi rimangono poveri cani abbandonati che ululano al vento.
I boschi non sono più governati dalla mano dell’uomo.
E’ una comunità morente.
Il più giovane avrà settant’anni.

Se, tutti voi, passeggiando tra i vicoli di questi sparuti villaggi, avreste la sensazione di incrociare lo sguardo di un pellegrino medievale stremato da un lungo viaggio ma con lo sguardo carico di gioia per aver raggiunto la meta, non sareste vittime di allucinazioni.
È come se nelle pietre e negli alberi che affondano le radici simili ad artigli, si fossero sedimentate le voci, le preghiere e i passi di coloro i quali hanno voluto raggiungere questa virgola di mondo unica e affascinante, immersa in una natura selvaggia e maestosa.
Una forza inarrestabile quella della fede, simile alle acque.
Nella pietra, dalla pietra e sulla pietra è fissata la storia di paesi dall’aspetto quasi lunare, inerpicati sui monti.


La chiesa di Santa Maria Apparens dagli scritti di Giovanni Corrieri

Nel territorio teramano, a macchia di leopardo, esistono incredibili gioielli che occorre scoprire, spesso in zone fuori dal mondo "normale" e dalle direttrici canoniche della viabilità corrente, lungo percorsi virtuali impressi nella "memoria" più che sulle mappe territoriali, o quelli millenari dei tratturi, della fede, dei miti.

In questi percorsi sono collocati, come avulsi dalla storia altrove normale, edifici votivi inaspettati e apparentemente al di fuori da logiche.

Ecco allora varie chiesette, ciascuna con una storia tutta propria, sparse un po' dovunque: San Donato a Castelli, San Bartolomeo a Villa Popolo, la Madonna delle Grazie di Alanno, la "Trinità" di Morge, S. Maria della Croce di Pietranico: Santa Maria Apparens ad Alvi è tra queste.

Prima di andare oltre occorre correggere un errore corrente, perché nella tradizione popolare si crede che la chiesetta sia sorta in seguito ad una "apparizione" della Vergine, ma il termine "Apparens" si riferisce ad un'etimo latino poco adusato, che significa "ubbidiente": infatti, in latino, "appareo", oltre che "apparire" significa anche "assentire, ubbidire".

Il termine si riferisce all'accettazione della Vergine del messaggio divino pronunciatogli dall'Arcangelo Gabriele.
La preghiera dell'angelus, infatti, termina con le parole pronunciate dalla Vergine: "fiat mihi secundum verbum tuum" (avvenga di me quello che mi hai detto), cioè che il Verbo si sarebbe incarnato nel suo grembo.
Quindi "Apparens", e tutti gli altri derivati toponimi di chiese (Santa Maria di Appari, ad es.) non vuol dire altro che "ubbidiente" e, per traslato, "Annunziata".

La chiesetta di piccole dimensioni sorge a poca distanza dalla statale 80 sulla sponda sinistra del Vomano, a qualche km da Tottea e da Cervaro, sulla direttrice di un sentiero montano immediatamente a valle del Lago di Campotosto.
E' una chiesetta votiva di origine medioevale,, ricostruita o rimaneggiata nella sua forma attuale nel 1516, mèta di una suggestiva Via Crucis (non so se ancora si effettua) che partiva in un breve percorso in salita dall'abitato di Alvi (ricostruita poco a valle verso gli anni '30 del '900 in seguito ad una frana che aveva distrutto il paese) fino al luogo della chiesetta.

L'importanza della chiesetta poggia sulla sua straordinaria decorazione pittorica dell'interno, con una serie di scene votive di ottima fattura, opera di più artisti, il più evoluto dei quali si allinea ad una eco della pittura marchigiana (ricordiamo che nel 1526 un altro marchigiano, Jacopo Bonfini da Patrignone, lavorava a S.Maria della Misericordia di Tortoreto), ma sono presenti altre "mani" in sintonia con la cultura umbra tra Pinturicchio e Perugino (come nell'Annunciazione di Cerqueto).

La magnifica scena della "Annunciazione", con l'Angelo a sinistra e la Vergine a destra dell'altare, pur se molto rovinata mostra una qualità pitttorica assolutamente insolita nel resto d'Abruzzo.

Tra le altre scene dipinte, una "Crocefissione", un "San S. Rocco", un "S. Sebastiano", una "S. Maria Maddalena" ed altre figure di Sante Martiri.
Una vera e propria pinacoteca, tragico residuo di una stagione pittorica in gran parte perduta per le ingiurie del tempo, ma soprattutto per l'incuria degli uomini.
Malgrado detti affreschi abbiano subito un recente restauro (circa 30 anni fa) ora è la struttura della chiesetta che ha bisogno di un vigoroso salvataggio, in quanto infiltrazioni di acqua e precarietà del tetto rischiano di danneggiare questo patrimonio pittorico che è uno dei pochi rimasti nel teramano dell'inizio del XVI secolo.

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Per arrivare a Alvi da Teramo, ci sono circa circa Km.37: si percorre la S.S.80 in direzione di Montorio al Vomano, proseguendo poi verso il Passo delle Capannelle.
Giunti ad Aprati si gira a destra e poi, dopo il ponte, subito a sinistra, seguendo le facili indicazioni stradali.

Grazie all'amico Alessandro de Ruvo per le splendide foto a corredo dell'articolo tratto dal libro "Il mio Ararat".


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sabato 2 agosto 2014

La Madonna delle Grazie a Teramo

Chiunque si rechi a Teramo, non può esimersi da una visita al Santuario dedicato alla Madonna delle Grazie, compatrona della città (insieme a San Berardo), punto di riferimento della vita cittadina, e nel quale i Frati Minori svolgono in tutta umiltà la loro missione di fraternità orante e operante.


Nel luogo ove esso attualmente sorge, esisteva anticamente (sec. XII) il Monastero Benedettino Femminile di S. Angelo delle Donne, costruito con la donazione di un tale Teodino, in suffragio dell’anima sua, secondo la formula allora in uso (come testimonia una lapide ritrovata nel corso della riedificazione del Santuario alla fine dell’800).

Ai primordi dell’Ordine fondato dal Poverello d’Assisi, nel tredicesimo secolo, i Francescani fecero la loro apparizione nel teramano, tanto che il primo convento francescano sorto a Teramo risale al 1227 e fu intitolato allo stesso fondatore, così come l’annessa chiesa, oggi comunemente chiamata di S. Antonio.

Nel 1400, secolo particolarmente doloroso per la nostra città, perché segnato da continue lotte fra le varie famiglie della città, fa la sua apparizione a Teramo Frà Giacomo della Marca, uno degli esponenti dell’”Osservanza Minorita”, la cui predicazione unita alla fattiva opera pacificatrice innestarono nei teramani il desiderio di avere fra loro una comunità dei “Frati Minori dell’Osservanza che in quel tempo si stavano diffondendo in Abruzzo grazie all’opera di un altro grande francescano, Giovanni da Capestrano.

Il 15 febbraio del 1449 i Frati Minori dell’Osservanza presero possesso della Chiesa e del Convento di Sant’Angelo delle Donne con i nuovo titolo di “Maria Santissima delle Grazie”, mentre le monache Benedettine furono sistemate in Sant’Anna, entro le mura della città.

Della stessa epoca, e per espresso desiderio di Giacomo della Marca, è la bellissima e miracolosa statua della Vergine SS.ma delle Grazie, scultura lignea, opera finissima di artisti aquilani (comunemente attribuita a Silvestro dall’Aquila).

Nella notte tra il 17 e il 18 novembre 1521 una luminosa apparizione della Vergine delle Grazie, insieme al protettore S. Berardo, sulle mura della città in direzione della chiesa delle Grazie aveva scompigliato i piani degli Acquaviva che assediavano Teramo, costringendoli ad una fuga precipitosa

Nel corso del XVI secolo le pubbliche cerimonie di pacificazione tra i partiti avvenivano “fuori la chiesa della Madonna delle Grazie”, e in una ennesima cerimonia, alla presenza del Vescovo e delle Autorità, nel marzo del 1559 fu istituita la “Festa della Pace” da celebrarsi ogni anno nella Domenica in Albis, l’ottava di Pasqua.

La Chiesa della Madonna delle Grazie fu ricostruita totalmente negli anni 1892-1900; del vecchio tempio è rimasto solo il campanile.
Il disegno architettonico, come gli affreschi interni, sono del celebre prof. Cesare Mariani di Roma.

La chiesa è di pianta rettangolare con l’abside nel fondo, con la cupola a calotta emisferica e tre cappelle per ogni lato, intitolate rispettivamente a S. Lucia, S. Antonio, Sacri Cuori, a sinistra di chi entra; all’Addolorata, alla Sacra Famiglia, a San Francesco alla destra.

La cappella dei Sacri Cuori di recente ospita il corpo del Beato Battista da Firenze.

Semicolonne corinzie sormontate da pilastrini scalanati sorreggono la volta della navata centrale divisa in tre scompartimenti a crociera in simmetria agli archi che formano le sei cappelle che la fiancheggiano.
Sotto la cupola nel centro vi è l’altare a confessione con quattro archi dove il baldacchino ottagonale custodisce la statua lignea della Madonna delle Grazie, un’opera di grande pregio e di rara bellezza.
Pregevole è da ritenersi la decorazione pittorica eseguita dal Mariani.

La volta della cupola rappresenta il cielo sovrastante la statua miracolosa della Madonna. Quattro spiriti celesti cantano le lodi di Maria, accompagnati da un orchestra di altri Angeli seduti.
Nelle nicchie circolari dei quattro pennacchi sono rappresentati quattro profeti: Mosè, Davide, Isaia e Geremia, ossia i profeti che avevano profetizzato della Vergine e del Divin Figlio.

Nel catino dell’abside, il Cristo Redentore siede sopra un fondo stellato, sorreggendo la Croce mentre guarda i fedeli che entrano nel tempio.
Alle pareti laterali sotto la cupola sono due grandi affreschi, che rappresentano due principali momenti della vita della Madre di Dio: la Natività, a destra di chi entra, e la Deposizione, a sinistra.

Nei tre scompartimenti a crociera dell’unica navata, ad eccezione del secondo smaltato di stelle d’oro come l’abside, sono dipinte figure di santi che in qualche modo hanno interessato il teramano o il Santuario: il Beato Tommaso, cardinale; S. Giacomo della Marca, il Beato Cherubino di Civitella del Tronto, Sant’Attone, nel primo scompartimento; S. Berardo, S. Michele Arcangelo, S. Benedetto e S. Francesco d’Assisi, nel terzo.

Le pareti delle sei cappelle laterali sono ornate con tappeti dipinti ad arazzo o quadri di artisti teramani, tra i quali “Il Martirio di S. Lucia” di Gennaro Della Monica e “Le tre Marie” di Pasquale Celommi.

Il 27 dicembre 1900 l’Arcivescovo di Lanciano Mons. Della Cioppa consacrò il Santuario appena ricostruito.
La sera del primo ottobre 1933 la statua della Madonna fu incoronata per le mani del Cardinale Alessio Ascalesi, nell’ambito dei festeggiamenti dell’VIII centenario di S. Berardo, Patrono della Diocesi.

Nel Santuario riposa, in un altare a lui dedicato, il Beato Battista da Firenze, frate minore.
Quando la madre entrò in un monastero di clarisse a L’Aquila, il giovane entrò in contatto con il mondo francescano e ne rimase affascinato al punto da decidere di abbracciare lo stato Religioso tra i Minori Osservanti.

Chiese ed ottenne di potersi ritirare dalla Toscana nel convento S. Bernardino di Campli, dove dimorò per molti anni dando testimonianza ai frati e ai secolari con la sua vita santa e dove morì il 9 marzo 1510 lasciando un tale odore di santità che i fedeli subito iniziarono a venerarlo.


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