L’antico paese di pastori ora è deserto.
Attende il suo momento di gloria nel mese di agosto.
È testimone silente di una storia di sacrifici, segnata da un grande fenomeno migratorio.
In Abruzzo nel 1700, erano circa tre milioni le pecore condotte al pascolo. La figura del pastore oggi richiama memorie infantili o bucoliche statuine di presepe.
In Abruzzo due su tre erano pastori.
Oggi sono tutti impiegati o sfaccendati.
Il villaggio è arroccato con una cinquantina di case originariamente in sasso, ristrutturate alcune in maniera discutibile.
Rimangono in piedi delle abitazioni tipiche del primo’800 con le facciate in pietra, le finestre di minime dimensioni, utili un tempo per proteggersi dalle intemperie.
Francesco mi offre del vino.
Bevi-mi dice- viene da una piccola vigna costruita attorno a massi di arenaria, che restituisce il sapore antico del Pecorino.
Poi mette in tavola la “ventricina”, insaccato di grasso suino del guanciale e del lardo con carne magra tritata e condita con spezie, bucce d’arancia, peperoncino.
Qui l’usanza è d’inserire nell’impasto, anche delle salsicce intere, facendo stagionare qualche mese.
Mangiamo questa delizia spalmata su pane fatto in casa, sodo e croccante.
La crosta bruna, ricoperta di farina che protegge una mollica chiara e morbida, è veramente buona.
Ricorda il pane di solina, la mamma di tutti i grani, unico cereale che insieme alla segale garantiva raccolti in alto.
I pastori ne portavano delle fette nelle bisacce, lungo i tratturi polverosi della transumanza.
Allora si consumava con il caciocavallo podolico, un formaggio semiduro a pasta cotta e filata a lunga stagionatura dal profumo e sapore deciso.
Quante storie di paese tornano alla luce grazie ad una chiacchierata!
Crognaleto ha basato la sua esistenza sulla pastorizia, l’allevamento degli animali, il taglio bosco e la lavorazione della pietra.
Qui c’erano anche dei discreti scalpellini.
Non certo importanti come quelli di Lettomanoppello di Pescara, la piccola Carrara d’Abruzzo, ma, gli artigiani della pietra qui hanno ornato chiese, balconate, portali d’ingresso.
Al contrario della pietra della Majella, morbida e facile da lavorare, questa era dura, più difficile da plasmare ma molto adatta alla lucidatura.
Il borgo, fino alla fine degli anni’ 60, non era attraversato da vie percorribili con auto.
La strada provinciale che sale da Cortino, prosegue per Aprati, è stata costruita solo nei primi anni del ’70.
Gli abitanti si spostavano a piedi fino a Cervaro e, per mezzo di corriere di linea rarissime, raggiungevano i paesi di Nerito, Montorio, Teramo.
Solo due in paese erano dotati di macchina: Lelio che guidava il Belvedere e Dante con la sua fiammante Fiat 750.
Le vetture erano parcheggiate a Cervaro, vista l’assenza di strade.
In casa la gente non aveva acqua.
Mentre l’Italia viveva il boom industriale del sessanta, le donne attingevano acqua alle sorgenti naturali de “la fonte cacchia” in inverno che si usava anche per il buon cuore di un certo Guglielmo, le “fonte Colina” e “marjelate” in estate.
I montanari potevano usare un abbeveratoio per gli asini, la “fonte jiù”!
L’acqua era trasportata dalle donne con le famose conche tenute sulla testa con li “turc nill”, gli “sparoni arrotolati”.
Per il decoro della biancheria ci pensava il fiume Zincano che scorre a valle e che si raggiungeva a piedi.
D’inverno ci si arrangiava con le tinozze!
In paese poche abitazioni hanno resistito all’invadenza dell’architettura moderna e mostrano come si costruiva un tempo: il ricovero per animali era al pian terreno, con funzione aggiuntiva di riscaldamento con l’alito delle bestie, cucina al primo piano e camera con letti al piano superiore!
Con una radio di un abitante si mantenevano a fatica i contatti col mondo.
Ogni tanto ci si riuniva dal parroco Don Giacinto, ora novantenne che, con una piccola somma in denaro, permetteva la visione della sua tv, unica nel paese fino al 1968 quando l’elettrodomestico si diffuse nelle case.
Tutte le famiglie avevano un orto da coltivare con fagioli e patate.
Gli antichi mestieri erano presenti con il sarto Ermenegildo, il falegname Gaspare, il calzolaio Fiorindo e gli osti che guadagnavano bene nelle tre cantine, addirittura tre, di Mabilia con telefono, sale e tabacchi, Lelio con alimentari e di Feliciantonio.
In questi locali i bicchieri si sprecavano fino a tarda sera tra morra e carte mentre le donne ricamavano.
La sera, in estate, spesso si ballava con un’orchestrina locale.
C’era anche la scuola elementare per i tanti ragazzi che rendevano viva e gioiosa la vita in paese.
Insomma, si dipinge un quadretto idilliaco ben diverso dall’attuale.
Erano i tempi in cui si mangiava la “panzanella”, pane, acqua, mentuccia, cipolla, sale, olio e aceto tutto in casseruola o il farro preparato in casa con due piccole macine, si curavano i dolori reumatici con la trementina raccolta nell’abetaia di Cortino o al Crocione della Morricana.
Una vita che non esiste più.
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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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