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domenica 5 giugno 2011

La Salaria dei carbonai

L’antica consolare Salaria che unisce Roma con le coste del piceno, è un autentico “museo diffuso”, tra i confini del parco nazionale Gran Sasso Monti della Laga e quello dei Sibillini.

Parliamo di un itinerario da vivere tra castelli, rocche, conventi, borghi antichi e paesaggi di roccia, l’antica “via dei pellegrini” che portava i fedeli al santuario mariano di Loreto, snodo sacro tra il convento della Madonna del Lambro di Montefortino e la via dei farfensi.

Il paese da visitare assolutamente è Arquata del Tronto.
Qui il folclore è legato ai Sibillini, magici monti dove, da sempre, la fantasia popolare ha individuato inquietanti presenze, quali la Sibilla e la Fata Alcina.

Alle più antiche leggende si sommano recenti memorie storiche; per questo, nel mese di agosto, è celebrata la presenza della Regina Giovanna nella Rocca di Arquata e la discesa delle Fate a Pretare.

A pochi tornanti, c’è il piccolo villaggio di Quintodecimo, un tempo importantissimo comune che raggruppava fino alla metà dell’Ottocento, sette frazioni di montagna, inerpicate su creste rocciose e castagneti rigogliosi. Al di fuori del piccolo centro sono evidenti i resti di uno dei ponti più antichi dell’Abruzzo e delle Marche.

Il manufatto, che aveva resistito alle intemperie del tempo e l’incuria dell’uomo, fu divelto da una delle proverbiali piene del fiume Tronto.

Salendo sopra il paese, nel sottobosco, è facile trovare piazzole, un tempo utilizzate, soprattutto nel periodo fra le due guerre, per costruire carbonaie.

I più vecchi ricordano che, nella tarda primavera, dal bosco salivano fili di fumo provenienti dal foro superiore delle caratteristiche strutture a cono che erano innalzate da questa gente rude che si assoggettava a una vita durissima di stenti.

I boschi hanno contribuito, prima dell’avvento del petrolio e del gas, a rendere facile la combustione per far muovere locomotive e riscaldare le case.
La produzione del carbone era favorita anche della povertà di risorse che il territorio offriva.

Il mestiere del carbonaio è scomparso e non rappresenta un’attività lucrativa ma rimane una risorsa culturale che affonda le radici nel cuore delle popolazioni locali.

I carbonai partivano nei mesi di settembre e ottobre con maglie e calzettoni di lana dentro un sacco di iuta, qualche manico di legna per l’accetta, la roncola, la lima e un pezzo di lardo che con polenta e pane, costituiva il pasto dell’artigiano.

Erano uomini che avevano imparato a capire gli umori e le collere dei venti, che si fermavano solo per mangiare quel pezzo di pane povero seccato in madie di legno e che trascorrevano le notti in piccole capanne di frasca e terra, capostipiti delle famose “pinciare”.


Uomini che molto somigliano a quelli delle Alpi, perché i loro volti sono uguali in qualsiasi sperduto angolo di montagna si trovino.

L’uomo e la natura hanno convissuto per secoli in simbiosi perenne e il carbonaio è stato parte integrante del bosco durante la composizione del carbone, confondendosi nell’insieme con il suo viso nero di fuliggine e terra in un incredibile contrasto tra le tinte monocrome di questi sguardi fieri e i colori della natura.

La tristezza in fondo agli occhi per una vita di stenti, che si contrappone alla felicità del canto armonioso degli uccelli nel bosco.

Sembra tutto una favola.

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Articolo redatto da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di due libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat".

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