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mercoledì 8 giugno 2011

L’arte del vino

Gesù, nell’Ultima Cena, alzando il calice, rese il vino, insieme al pane l’elemento costitutivo dell’Eucarestia e della vita di ognuno di noi.
Probabilmente a questo episodio, il più importante di quelli tramandatici dai Vangeli, la vite deve molte delle sue fortune.

L’Abruzzo contadino ha una solida tradizione di terra ricca di vitigni e inventiva che regala vini eccellenti per purezza, gusto e aroma anche in pezzetti di terra considerati minori per la produzione vitivinicola.

Uomini coraggiosi fanno comunque emergere un territorio che ha molto da far scoprire.

La storia di Renato è simile a quella di tanti di essi.

Siamo nelle colline alte, quelle a ridosso dei Monti Gemelli tra Campli e Civitella del Tronto.
Di quel pezzetto di terra qualche anno fa lui si era proprio dimenticato.
Poco meno di venti pertiche, misura agraria usata nelle nostre campagne, quindici di esse fanno un ettaro.
Lo aveva ereditato tempo addietro dal nonno ed era incolto.

Poi un giorno il nostro amico, una vita di ufficio e scartoffie ad Ascoli Piceno, è andato finalmente in pensione, i figli ormai grandi ed ecco che è scattata quasi naturale, la felice intuizione.

Renato ha tolto faticosamente le erbacce, ha pregato un amico agricoltore di aiutarlo a una buona aratura, ha scoperto i segreti più reconditi della semina e della concimazione e, con macchinari inizialmente in prestito, ha reso il terreno, un piccolo tesoro.

Ha creato il suo mondo dai filari di viti, sopravvissute a prolungata incuria, sostenute oggi da meli, peri, ulivi, alternati a piccole strisce coltivate a frumento.
È l’antico metodo dell’”alteno”, un campo coltivato con piante di viti abbinate ad altre di fusto per far sì che la parte frondosa crei una sorta di tetto, un soffitto verde.

È una piccola vigna rupestre costruita attorno a massi di arenaria, che restituisce il sapore antico del vino “Pecorino” e quello deciso del “Montepulciano”.

“Proprio il pecorino ha qui, tra le colline che sanno già di montagna, il suo habitat naturale”, mi dice il buon Renato che oggi produce pochi quintali di nettare, un po’ per lui e altri già prenotati da clienti di vecchia data.

Poi mi racconta che il nome non è solo dato dalla storica transumanza dei pastori ma soprattutto per il particolare gradimento delle greggi verso i grappoli di uva, che si presenta con acini piuttosto piccoli, gustosi e croccanti.

Il suo minuscolo vigneto è quanto di più poetico ci possa essere.

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Articolo redatto da Sergio Scacchia, autore tra l'altro di due libri:
"Silenzi di Pietra" e "Il mio Ararat".

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